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domenica 24 gennaio 2010

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Il ruolo delle banche centrali

Quando leggo certi articoli rimango, sinceramente, molto perplesso. Mi riferisco a quello pubblicato su Il Sole 24 Ore di venerdì 22 gennaio a pagina 12, di Donato Masciandaro.
L’articolo, intitolato “Giù le mani dalle banche centrali”, è una difesa a spada tratta, riguardo l’autonomia delle banche centrali, alla luce della crisi vissuta dall’economia globale.
In apparenza, la causa dell’indipendenza e dell’autonomia appare sacrosanta, tuttavia mi preme fare alcune considerazioni, entrando in punta di piedi nel dibattito in corso, riguardo il ruolo che dovranno giocare le banche centrali in futuro.
L’articolo evidenzia la differenza tra banca centrale monetarista, che si pone come unico obiettivo quello della stabilità dei prezzi e banca centrale di stampo keynesiano, che tende ad avere responsabilità anche nell’ambito della vigilanza. Masciandaro scrive:”Finora infatti le banche centrali monetariste hanno ben perseguito il loro obiettivo primario: il controllo dell’inflazione, soprattutto nelle economie sviluppate. In secondo luogo, le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria”.
Masciandaro prosegue ancora:”Dunque, dopo la lezione della crisi, la ricetta dovrebbe essere: mantenere le banche centrali indipendenti nella gestione della politica monetaria, evitando che si occupino anche della vigilanza”. In altre parole, l’autore sarebbe per una banca centrale di stampo monetarista che mantenga la propria indipendenza. Ebbene, questa soluzione significherebbe non avere colto appieno il messaggio che questa crisi ci ha dato. Il vero problema, a mio avviso, non è lo scegliere tra l’impostazione monetarista o quella keynesiana ma piuttosto quello di riconoscere ed ammettere, innanzitutto, che gli obiettivi di stabilità dei prezzi e monetaria, nel corso degli ultimi anni, non sono stati pienamente raggiunti. Le ragioni di questo parziale fallimento sono legate, in parte, ad effettivi casi di incapacità di alcuni banchieri centrali e, in larga misura, alla manifesta impossibilità di prevedere l’andamento futuro delle principali variabili macroeconomiche. Come si fanno ad utilizzare strumenti di politica monetaria in modo efficace quando le decisioni si basano su variabili macroeconomiche difficili da prevedere?! Un banale esempio? Negli Usa vengono fornite a distanza di tempo 3 stime del Pil che cambiano anche molto l’una dall’altra.
Tornando ai risultati ottenuti dalle banche centrali, cito un solo esempio: la situazione di deflazione in cui versa da molti anni il Giappone ed in cui potrebbero cadere altre economie, come quella statunitense, qualora la Federal Reserve sbagli nel giocare la carta della exit strategy. In effetti, tenendo conto delle distorsioni nelle misurazioni standard dei prezzi a livello aggregato, la frequenza trimestrale di una “deflazione effettiva” è aumentata sensibilmente negli ultimi anni (si veda la tabella seguente). La recente esperienza giapponese e quella della Grande Depressione mostrano con chiarezza come un contesto apparentemente favorevole di bassa inflazione possa cedere il posto a una deflazione dirompente.
La tabella qui in basso mostra in percentuale il numero di trimestri in cui i diversi Paesi esaminati hanno sperimentato livelli di crescita dei prezzi sotto 1%.



Inoltre, l’uso indiscriminato della leva monetaria è stata una delle principali cause dell’instabilità e delle bolle finanziarie susseguitesi una di seguito all’altra: dalla bolla tecnologica degli anni duemila a quella dei mutui subprime e del mercato immobiliare Americano del 2007, con conseguenze pesanti sull’economia reale e sull’andamento dei mercati finanziari. A che prezzo quindi, le banche centrali hanno perseguito, senza raggiungerli pienamente, i loro obiettivi di controllo dell’inflazione e di stabilità monetaria?! Qual’è stato il costo sociale delle politiche monetarie adottate dalle banche centrali?!Masciandaro sostiene poi che “le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria.”
Non entro nel merito della scelta tra banca centrale monetarista e keynesiana; se per stabilità monetaria l’autore intende il contenimento delle oscillazioni dei cambi, sinceramente non mi risulta che l’obiettivo sia stato raggiunto; cito un solo esempio: il dollar index, indice paniere delle principali valute contro il dollaro americano solo negli ultimi due anni è andato da 72 a 88 e poi è tornato a 74; un range di escursione di oltre il 20%. Questa si chiama stabilità monetaria?! La stabilità monetaria non è perseguibile in un regime di cambi flessibili, in un contesto cioè dove il rapporto di cambio si muove, si aggiusta (anzi si deve aggiustare!) in funzione delle aspettative degli investitori, fungendo proprio da meccanismo riequilibratore. Ebbene, non esiste nessuna banca centrale al mondo in grado di mantenere fermo o stabile il proprio tasso di cambio. Ricordo ad esempio negli anni passati gli sforzi, completamente inutili, perseguiti da Bank of Japan per stabilizzare lo Yen. Proprio in questa fase gli Usa hanno bisogno di un dollaro debole per mitigare i disequilibri esistenti.
Tornando alle politiche monetarie, effettivamente, negli ultimi decenni del Novecento, pressoché in tutti i Paesi occidentali, ci si è orientati a considerare cruciale il controllo del tasso di inflazione. Alle banche centrali è stato affidato il compito di perseguire la stabilità dei prezzi.
Si è affermata la consapevolezza che l'inflazione comporta costi elevati agli operatori economici perché altera il valore segnaletico dei prezzi relativi nell’allocazione delle risorse. Secondo questa logica quindi la banca centrale deve porsi come obiettivo la determinazione di un tasso ottimale di inflazione che sia stabile nel tempo.
In effetti, i motivi che depongono a favore della stabilità monetaria, e quindi per una politica monetaria che si ponga l’obiettivo di stabilizzare il tasso di inflazione su un valore prossimo a zero, sono molteplici. Ad esempio, la combinazione di inflazione e sistemi tributari non perfettamente indicizzati può generare distorsioni fiscali (il cosiddetto fiscal drag).
Un tasso d’inflazione instabile poi, può dar luogo a fenomeni di illusione monetaria che induce gli operatori a adottare decisioni non corrette.
Inoltre, se l’inflazione è di per sé un fenomeno negativo l’obiettivo della stabilità monetaria ha il pregio di essere semplice e credibile per le autorità monetarie che s’impegnano a conseguirlo.
Tuttavia, affinché le politiche monetarie anti-inflazionistiche non siano socialmente costose è necessario che si verifichino tre importanti condizioni:

a) il mercato del lavoro deve trovarsi continuamente in equilibrio (non devono quindi esistere contratti di lavoro multiperiodali);
b) le aspettative non devono essere di tipo adattivo; nel caso di aspettative adattive che tendono, quindi, a modificarsi lentamente, se la banca centrale adotta una politica restrittiva, che consente di eliminare l'inflazione, ciò avverrà al prezzo di un aumento del tasso di disoccupazione nel breve periodo perchè le aspettative circa il tasso d’inflazione prevalente nel periodo successivo saranno riviste gradualmente, quindi anche i salari monetari si adegueranno con ritardo, per cui si avrà un aumento temporaneo del tasso di disoccupazione oltre il suo livello naturale.
c) le politiche monetarie annunciate devono essere credibili; se la banca centrale gode di un'elevata reputazione, non solo la soluzione non-inflazionistica risulta più facilmente raggiungibile, ma l'efficacia della politica monetaria è accresciuta, perché i segnali lanciati dalle autorità monetarie risultano credibili.

Ho seri dubbi circa la possibilità che queste tre condizioni sussistano o siano esistite simultaneamente nei periodi passati. Da qui traggo una prima importante conclusione ribadendo un concetto già espresso: la questione cruciale non è la scelta tra banche monetariste o keynesiane; la questione è: poiché le banche centrali non sono in grado di perseguire pienamente l’obiettivo di controllo dell’inflazione, anzi con le loro politiche monetarie hanno alimentato i problemi del sistema, mai come ora, dopo “la madre di tutte le crisi economiche” è necessario cogliere l’occasione per ridefinirne il loro ruolo assegnandogli obiettivi effettivamente raggiungibili e volti a creare benessere e crescita economica sostenibile. Abbiamo davanti a noi una grande possibilità: quella di definire un nuovo paradigma e di ridisegnare le regole del sistema economico.
Ben vengano a questo proposito le visioni illuminate di grandi economisti come Partha Dasgupta che, ad esempio, mettono in discussione l’abc dell’economia: le modalità di calcolo del Pil di un Paese!
La questione dell’indipendenza di cui parla Masciandaro poi, è un altro nodo da chiarire.
E’ vero, l’indipendenza della banca centrale è stata introdotta in molti Paesi, con un obiettivo ben chiaro e facile da misurare: combattere l’inflazione.
Tuttavia molti autori evidenziano come i risultati ottenuti contro l’inflazione dipendano non tanto dall’indipendenza in se ma da quanto le istituzioni del Paese sono forti; l’evidenza empirica mostra come i risultati contro l’inflazione sembrano scarsi o del tutto assenti nei Paesi con istituzioni politiche troppo forti oppure deboli. Viceversa, l’effetto sull’inflazione è più forte nei Paesi con istituzioni di forza intermedia.
Pertanto, se da un lato l’indipendenza è un concetto condivisibile, dall’altro la definizione dell’indipendenza di una banca centrale non può prescindere da un’attenta analisi della qualità delle istituzioni del Paese a cui appartiene.
Dunque, bisogna ridefinire il ruolo e le responsabilità delle banche centrali alla luce dei limiti che le loro politiche, a volte dissennate, hanno mostrato avere in questi anni, modulandone l’indipendenza in funzione dei Paesi a cui appartengono.

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