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domenica 24 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Il ruolo delle banche centrali
Quando leggo certi articoli rimango, sinceramente, molto perplesso. Mi riferisco a quello pubblicato su Il Sole 24 Ore di venerdì 22 gennaio a pagina 12, di Donato Masciandaro.
L’articolo, intitolato “Giù le mani dalle banche centrali”, è una difesa a spada tratta, riguardo l’autonomia delle banche centrali, alla luce della crisi vissuta dall’economia globale.
In apparenza, la causa dell’indipendenza e dell’autonomia appare sacrosanta, tuttavia mi preme fare alcune considerazioni, entrando in punta di piedi nel dibattito in corso, riguardo il ruolo che dovranno giocare le banche centrali in futuro.
L’articolo evidenzia la differenza tra banca centrale monetarista, che si pone come unico obiettivo quello della stabilità dei prezzi e banca centrale di stampo keynesiano, che tende ad avere responsabilità anche nell’ambito della vigilanza. Masciandaro scrive:”Finora infatti le banche centrali monetariste hanno ben perseguito il loro obiettivo primario: il controllo dell’inflazione, soprattutto nelle economie sviluppate. In secondo luogo, le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria”.
Masciandaro prosegue ancora:”Dunque, dopo la lezione della crisi, la ricetta dovrebbe essere: mantenere le banche centrali indipendenti nella gestione della politica monetaria, evitando che si occupino anche della vigilanza”. In altre parole, l’autore sarebbe per una banca centrale di stampo monetarista che mantenga la propria indipendenza. Ebbene, questa soluzione significherebbe non avere colto appieno il messaggio che questa crisi ci ha dato. Il vero problema, a mio avviso, non è lo scegliere tra l’impostazione monetarista o quella keynesiana ma piuttosto quello di riconoscere ed ammettere, innanzitutto, che gli obiettivi di stabilità dei prezzi e monetaria, nel corso degli ultimi anni, non sono stati pienamente raggiunti. Le ragioni di questo parziale fallimento sono legate, in parte, ad effettivi casi di incapacità di alcuni banchieri centrali e, in larga misura, alla manifesta impossibilità di prevedere l’andamento futuro delle principali variabili macroeconomiche. Come si fanno ad utilizzare strumenti di politica monetaria in modo efficace quando le decisioni si basano su variabili macroeconomiche difficili da prevedere?! Un banale esempio? Negli Usa vengono fornite a distanza di tempo 3 stime del Pil che cambiano anche molto l’una dall’altra.
Tornando ai risultati ottenuti dalle banche centrali, cito un solo esempio: la situazione di deflazione in cui versa da molti anni il Giappone ed in cui potrebbero cadere altre economie, come quella statunitense, qualora la Federal Reserve sbagli nel giocare la carta della exit strategy. In effetti, tenendo conto delle distorsioni nelle misurazioni standard dei prezzi a livello aggregato, la frequenza trimestrale di una “deflazione effettiva” è aumentata sensibilmente negli ultimi anni (si veda la tabella seguente). La recente esperienza giapponese e quella della Grande Depressione mostrano con chiarezza come un contesto apparentemente favorevole di bassa inflazione possa cedere il posto a una deflazione dirompente.
La tabella qui in basso mostra in percentuale il numero di trimestri in cui i diversi Paesi esaminati hanno sperimentato livelli di crescita dei prezzi sotto 1%.
Inoltre, l’uso indiscriminato della leva monetaria è stata una delle principali cause dell’instabilità e delle bolle finanziarie susseguitesi una di seguito all’altra: dalla bolla tecnologica degli anni duemila a quella dei mutui subprime e del mercato immobiliare Americano del 2007, con conseguenze pesanti sull’economia reale e sull’andamento dei mercati finanziari. A che prezzo quindi, le banche centrali hanno perseguito, senza raggiungerli pienamente, i loro obiettivi di controllo dell’inflazione e di stabilità monetaria?! Qual’è stato il costo sociale delle politiche monetarie adottate dalle banche centrali?!Masciandaro sostiene poi che “le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria.”
Non entro nel merito della scelta tra banca centrale monetarista e keynesiana; se per stabilità monetaria l’autore intende il contenimento delle oscillazioni dei cambi, sinceramente non mi risulta che l’obiettivo sia stato raggiunto; cito un solo esempio: il dollar index, indice paniere delle principali valute contro il dollaro americano solo negli ultimi due anni è andato da 72 a 88 e poi è tornato a 74; un range di escursione di oltre il 20%. Questa si chiama stabilità monetaria?! La stabilità monetaria non è perseguibile in un regime di cambi flessibili, in un contesto cioè dove il rapporto di cambio si muove, si aggiusta (anzi si deve aggiustare!) in funzione delle aspettative degli investitori, fungendo proprio da meccanismo riequilibratore. Ebbene, non esiste nessuna banca centrale al mondo in grado di mantenere fermo o stabile il proprio tasso di cambio. Ricordo ad esempio negli anni passati gli sforzi, completamente inutili, perseguiti da Bank of Japan per stabilizzare lo Yen. Proprio in questa fase gli Usa hanno bisogno di un dollaro debole per mitigare i disequilibri esistenti.
Tornando alle politiche monetarie, effettivamente, negli ultimi decenni del Novecento, pressoché in tutti i Paesi occidentali, ci si è orientati a considerare cruciale il controllo del tasso di inflazione. Alle banche centrali è stato affidato il compito di perseguire la stabilità dei prezzi.
Si è affermata la consapevolezza che l'inflazione comporta costi elevati agli operatori economici perché altera il valore segnaletico dei prezzi relativi nell’allocazione delle risorse. Secondo questa logica quindi la banca centrale deve porsi come obiettivo la determinazione di un tasso ottimale di inflazione che sia stabile nel tempo.
In effetti, i motivi che depongono a favore della stabilità monetaria, e quindi per una politica monetaria che si ponga l’obiettivo di stabilizzare il tasso di inflazione su un valore prossimo a zero, sono molteplici. Ad esempio, la combinazione di inflazione e sistemi tributari non perfettamente indicizzati può generare distorsioni fiscali (il cosiddetto fiscal drag).
Un tasso d’inflazione instabile poi, può dar luogo a fenomeni di illusione monetaria che induce gli operatori a adottare decisioni non corrette.
Inoltre, se l’inflazione è di per sé un fenomeno negativo l’obiettivo della stabilità monetaria ha il pregio di essere semplice e credibile per le autorità monetarie che s’impegnano a conseguirlo.
Tuttavia, affinché le politiche monetarie anti-inflazionistiche non siano socialmente costose è necessario che si verifichino tre importanti condizioni:
a) il mercato del lavoro deve trovarsi continuamente in equilibrio (non devono quindi esistere contratti di lavoro multiperiodali);
b) le aspettative non devono essere di tipo adattivo; nel caso di aspettative adattive che tendono, quindi, a modificarsi lentamente, se la banca centrale adotta una politica restrittiva, che consente di eliminare l'inflazione, ciò avverrà al prezzo di un aumento del tasso di disoccupazione nel breve periodo perchè le aspettative circa il tasso d’inflazione prevalente nel periodo successivo saranno riviste gradualmente, quindi anche i salari monetari si adegueranno con ritardo, per cui si avrà un aumento temporaneo del tasso di disoccupazione oltre il suo livello naturale.
c) le politiche monetarie annunciate devono essere credibili; se la banca centrale gode di un'elevata reputazione, non solo la soluzione non-inflazionistica risulta più facilmente raggiungibile, ma l'efficacia della politica monetaria è accresciuta, perché i segnali lanciati dalle autorità monetarie risultano credibili.
Ho seri dubbi circa la possibilità che queste tre condizioni sussistano o siano esistite simultaneamente nei periodi passati. Da qui traggo una prima importante conclusione ribadendo un concetto già espresso: la questione cruciale non è la scelta tra banche monetariste o keynesiane; la questione è: poiché le banche centrali non sono in grado di perseguire pienamente l’obiettivo di controllo dell’inflazione, anzi con le loro politiche monetarie hanno alimentato i problemi del sistema, mai come ora, dopo “la madre di tutte le crisi economiche” è necessario cogliere l’occasione per ridefinirne il loro ruolo assegnandogli obiettivi effettivamente raggiungibili e volti a creare benessere e crescita economica sostenibile. Abbiamo davanti a noi una grande possibilità: quella di definire un nuovo paradigma e di ridisegnare le regole del sistema economico. Ben vengano a questo proposito le visioni illuminate di grandi economisti come Partha Dasgupta che, ad esempio, mettono in discussione l’abc dell’economia: le modalità di calcolo del Pil di un Paese!
La questione dell’indipendenza di cui parla Masciandaro poi, è un altro nodo da chiarire.
E’ vero, l’indipendenza della banca centrale è stata introdotta in molti Paesi, con un obiettivo ben chiaro e facile da misurare: combattere l’inflazione.
Tuttavia molti autori evidenziano come i risultati ottenuti contro l’inflazione dipendano non tanto dall’indipendenza in se ma da quanto le istituzioni del Paese sono forti; l’evidenza empirica mostra come i risultati contro l’inflazione sembrano scarsi o del tutto assenti nei Paesi con istituzioni politiche troppo forti oppure deboli. Viceversa, l’effetto sull’inflazione è più forte nei Paesi con istituzioni di forza intermedia.
Pertanto, se da un lato l’indipendenza è un concetto condivisibile, dall’altro la definizione dell’indipendenza di una banca centrale non può prescindere da un’attenta analisi della qualità delle istituzioni del Paese a cui appartiene.
Dunque, bisogna ridefinire il ruolo e le responsabilità delle banche centrali alla luce dei limiti che le loro politiche, a volte dissennate, hanno mostrato avere in questi anni, modulandone l’indipendenza in funzione dei Paesi a cui appartengono.
L’articolo, intitolato “Giù le mani dalle banche centrali”, è una difesa a spada tratta, riguardo l’autonomia delle banche centrali, alla luce della crisi vissuta dall’economia globale.
In apparenza, la causa dell’indipendenza e dell’autonomia appare sacrosanta, tuttavia mi preme fare alcune considerazioni, entrando in punta di piedi nel dibattito in corso, riguardo il ruolo che dovranno giocare le banche centrali in futuro.
L’articolo evidenzia la differenza tra banca centrale monetarista, che si pone come unico obiettivo quello della stabilità dei prezzi e banca centrale di stampo keynesiano, che tende ad avere responsabilità anche nell’ambito della vigilanza. Masciandaro scrive:”Finora infatti le banche centrali monetariste hanno ben perseguito il loro obiettivo primario: il controllo dell’inflazione, soprattutto nelle economie sviluppate. In secondo luogo, le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria”.
Masciandaro prosegue ancora:”Dunque, dopo la lezione della crisi, la ricetta dovrebbe essere: mantenere le banche centrali indipendenti nella gestione della politica monetaria, evitando che si occupino anche della vigilanza”. In altre parole, l’autore sarebbe per una banca centrale di stampo monetarista che mantenga la propria indipendenza. Ebbene, questa soluzione significherebbe non avere colto appieno il messaggio che questa crisi ci ha dato. Il vero problema, a mio avviso, non è lo scegliere tra l’impostazione monetarista o quella keynesiana ma piuttosto quello di riconoscere ed ammettere, innanzitutto, che gli obiettivi di stabilità dei prezzi e monetaria, nel corso degli ultimi anni, non sono stati pienamente raggiunti. Le ragioni di questo parziale fallimento sono legate, in parte, ad effettivi casi di incapacità di alcuni banchieri centrali e, in larga misura, alla manifesta impossibilità di prevedere l’andamento futuro delle principali variabili macroeconomiche. Come si fanno ad utilizzare strumenti di politica monetaria in modo efficace quando le decisioni si basano su variabili macroeconomiche difficili da prevedere?! Un banale esempio? Negli Usa vengono fornite a distanza di tempo 3 stime del Pil che cambiano anche molto l’una dall’altra.
Tornando ai risultati ottenuti dalle banche centrali, cito un solo esempio: la situazione di deflazione in cui versa da molti anni il Giappone ed in cui potrebbero cadere altre economie, come quella statunitense, qualora la Federal Reserve sbagli nel giocare la carta della exit strategy. In effetti, tenendo conto delle distorsioni nelle misurazioni standard dei prezzi a livello aggregato, la frequenza trimestrale di una “deflazione effettiva” è aumentata sensibilmente negli ultimi anni (si veda la tabella seguente). La recente esperienza giapponese e quella della Grande Depressione mostrano con chiarezza come un contesto apparentemente favorevole di bassa inflazione possa cedere il posto a una deflazione dirompente.
La tabella qui in basso mostra in percentuale il numero di trimestri in cui i diversi Paesi esaminati hanno sperimentato livelli di crescita dei prezzi sotto 1%.
Inoltre, l’uso indiscriminato della leva monetaria è stata una delle principali cause dell’instabilità e delle bolle finanziarie susseguitesi una di seguito all’altra: dalla bolla tecnologica degli anni duemila a quella dei mutui subprime e del mercato immobiliare Americano del 2007, con conseguenze pesanti sull’economia reale e sull’andamento dei mercati finanziari. A che prezzo quindi, le banche centrali hanno perseguito, senza raggiungerli pienamente, i loro obiettivi di controllo dell’inflazione e di stabilità monetaria?! Qual’è stato il costo sociale delle politiche monetarie adottate dalle banche centrali?!Masciandaro sostiene poi che “le banche centrali monetariste, almeno finora, hanno tutelato meglio anche la stabilità monetaria.”
Non entro nel merito della scelta tra banca centrale monetarista e keynesiana; se per stabilità monetaria l’autore intende il contenimento delle oscillazioni dei cambi, sinceramente non mi risulta che l’obiettivo sia stato raggiunto; cito un solo esempio: il dollar index, indice paniere delle principali valute contro il dollaro americano solo negli ultimi due anni è andato da 72 a 88 e poi è tornato a 74; un range di escursione di oltre il 20%. Questa si chiama stabilità monetaria?! La stabilità monetaria non è perseguibile in un regime di cambi flessibili, in un contesto cioè dove il rapporto di cambio si muove, si aggiusta (anzi si deve aggiustare!) in funzione delle aspettative degli investitori, fungendo proprio da meccanismo riequilibratore. Ebbene, non esiste nessuna banca centrale al mondo in grado di mantenere fermo o stabile il proprio tasso di cambio. Ricordo ad esempio negli anni passati gli sforzi, completamente inutili, perseguiti da Bank of Japan per stabilizzare lo Yen. Proprio in questa fase gli Usa hanno bisogno di un dollaro debole per mitigare i disequilibri esistenti.
Tornando alle politiche monetarie, effettivamente, negli ultimi decenni del Novecento, pressoché in tutti i Paesi occidentali, ci si è orientati a considerare cruciale il controllo del tasso di inflazione. Alle banche centrali è stato affidato il compito di perseguire la stabilità dei prezzi.
Si è affermata la consapevolezza che l'inflazione comporta costi elevati agli operatori economici perché altera il valore segnaletico dei prezzi relativi nell’allocazione delle risorse. Secondo questa logica quindi la banca centrale deve porsi come obiettivo la determinazione di un tasso ottimale di inflazione che sia stabile nel tempo.
In effetti, i motivi che depongono a favore della stabilità monetaria, e quindi per una politica monetaria che si ponga l’obiettivo di stabilizzare il tasso di inflazione su un valore prossimo a zero, sono molteplici. Ad esempio, la combinazione di inflazione e sistemi tributari non perfettamente indicizzati può generare distorsioni fiscali (il cosiddetto fiscal drag).
Un tasso d’inflazione instabile poi, può dar luogo a fenomeni di illusione monetaria che induce gli operatori a adottare decisioni non corrette.
Inoltre, se l’inflazione è di per sé un fenomeno negativo l’obiettivo della stabilità monetaria ha il pregio di essere semplice e credibile per le autorità monetarie che s’impegnano a conseguirlo.
Tuttavia, affinché le politiche monetarie anti-inflazionistiche non siano socialmente costose è necessario che si verifichino tre importanti condizioni:
a) il mercato del lavoro deve trovarsi continuamente in equilibrio (non devono quindi esistere contratti di lavoro multiperiodali);
b) le aspettative non devono essere di tipo adattivo; nel caso di aspettative adattive che tendono, quindi, a modificarsi lentamente, se la banca centrale adotta una politica restrittiva, che consente di eliminare l'inflazione, ciò avverrà al prezzo di un aumento del tasso di disoccupazione nel breve periodo perchè le aspettative circa il tasso d’inflazione prevalente nel periodo successivo saranno riviste gradualmente, quindi anche i salari monetari si adegueranno con ritardo, per cui si avrà un aumento temporaneo del tasso di disoccupazione oltre il suo livello naturale.
c) le politiche monetarie annunciate devono essere credibili; se la banca centrale gode di un'elevata reputazione, non solo la soluzione non-inflazionistica risulta più facilmente raggiungibile, ma l'efficacia della politica monetaria è accresciuta, perché i segnali lanciati dalle autorità monetarie risultano credibili.
Ho seri dubbi circa la possibilità che queste tre condizioni sussistano o siano esistite simultaneamente nei periodi passati. Da qui traggo una prima importante conclusione ribadendo un concetto già espresso: la questione cruciale non è la scelta tra banche monetariste o keynesiane; la questione è: poiché le banche centrali non sono in grado di perseguire pienamente l’obiettivo di controllo dell’inflazione, anzi con le loro politiche monetarie hanno alimentato i problemi del sistema, mai come ora, dopo “la madre di tutte le crisi economiche” è necessario cogliere l’occasione per ridefinirne il loro ruolo assegnandogli obiettivi effettivamente raggiungibili e volti a creare benessere e crescita economica sostenibile. Abbiamo davanti a noi una grande possibilità: quella di definire un nuovo paradigma e di ridisegnare le regole del sistema economico. Ben vengano a questo proposito le visioni illuminate di grandi economisti come Partha Dasgupta che, ad esempio, mettono in discussione l’abc dell’economia: le modalità di calcolo del Pil di un Paese!
La questione dell’indipendenza di cui parla Masciandaro poi, è un altro nodo da chiarire.
E’ vero, l’indipendenza della banca centrale è stata introdotta in molti Paesi, con un obiettivo ben chiaro e facile da misurare: combattere l’inflazione.
Tuttavia molti autori evidenziano come i risultati ottenuti contro l’inflazione dipendano non tanto dall’indipendenza in se ma da quanto le istituzioni del Paese sono forti; l’evidenza empirica mostra come i risultati contro l’inflazione sembrano scarsi o del tutto assenti nei Paesi con istituzioni politiche troppo forti oppure deboli. Viceversa, l’effetto sull’inflazione è più forte nei Paesi con istituzioni di forza intermedia.
Pertanto, se da un lato l’indipendenza è un concetto condivisibile, dall’altro la definizione dell’indipendenza di una banca centrale non può prescindere da un’attenta analisi della qualità delle istituzioni del Paese a cui appartiene.
Dunque, bisogna ridefinire il ruolo e le responsabilità delle banche centrali alla luce dei limiti che le loro politiche, a volte dissennate, hanno mostrato avere in questi anni, modulandone l’indipendenza in funzione dei Paesi a cui appartengono.
sabato 23 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Continuando a parlare di disequilibri e disuguaglianze ma anche di mondi alternativi e crescita sostenibile….
L’ultimo post intitolato “Eccessi e disequilibri” Vi ha solleticato; ringrazio in particolare, Laura di Milano, Innocenzo di Torino e Giovanni di Borgo Valsugana sia per i commenti positivi sugli articoli e sulla Newsletter che per il sostegno al mio Blog.
Continuiamo allora a parlare di disequilibri e diseguaglianze per meglio interpretarli, capirli e correggerli attraverso la costruzione di mondi alternativi. Traggo lo spunto per gli argomenti dibattuti in questo post anche da un felice recente accadimento: la laurea Honoris causa assegnata dall’Università di Rimini ad un eminente economista: Partha Dasgupta
(ecco il link della notizia:
http://ilrestodelcarlino.ilsole24ore.com/rimini/cronaca/2010/01/22/284072-universita_laurea_honorem.shtml).
Per chi non conosce questo illuminato pensatore allego il link di wikipedia:
http://en.wikipedia.org/wiki/Partha_Dasgupta
Da tanti anni, mi trovo, per ragioni di lavoro, a maneggiare dati macroeconomici, a studiarli e digerirli con la finalità di cercare di comprendere se il mondo degli investimenti nel quale nuoto è in equilibrio oppure no; tuttavia, mai come in questo periodo, avverto un divario tra la realtà delle cose e quello che questi dati ci stanno dicendo. Nelle recenti Financial Markets LAB Newsletter ho più volte criticato, ad esempio, la bontà e l’attendibilità dei dati sull’occupazione Statunitense. Ecco la ragione percui voglio parlarvi di Dasgupta: perché questo economista vuole studiare disequilibri ed inefficienze delle economie in cui viviamo introducendo un nuovo paradigma, un nuovo approccio.
Secondo questo eminente pensatore i modelli economici sono carenti e vanno arricchiti per poter egregiamente rappresentare la realtà perché, solitamente, tengono conto del capitale, del lavoro ma si dimenticano di una importante variabile: la terra o la natura nel senso ampio del termine!
Guardiamo un attimo le previsioni sulla crescita della popolazione mondiale: si parla di qualcosa come 9-9.5 miliardi e mezzo di persone nel 2050! Guardate poi il grafico seguente che mostra due trend inesorabili: la crescita della popolazione mondiale e il calo dei terreni coltivabili.
Allora, come non dare ragione a Dasgupta?! Non si può trascurare il valore della terra e di quanto essa produce quando si vuole modellizzare la realtà per fare previsioni o stime economico-statistiche della realtà.
“Gli economisti si sono creati un immagine mentale dell’attività economica che contempla poco la natura: i modelli di crescita parlano solo di capitale fisico, di conoscenza, più recentemente anche di capitale umano” dice Dasgupta.
E aggiunge:
”Si è alimentata la credenza subconscia che la natura non abbia davvero importanza e questo ha dato vita a una percezione alterata della realtà, soprattutto tenuto conto delle attuali dimensioni della popolazione umana e del livello dell’attività economica inconcepibile nel passato”.
Certo, se ripercorriamo a ritroso gli ultimi anni quello che vediamo è un mondo cresciuto a ritmi medi del 3% con enormi disuguaglianze sociali, con utilizzi impropri degli strumenti di crescita economica e controllo dell’inflazione (aumento della massa monetaria all’inverosimile!) con socializzazioni forzate del debito privato creato da pochi sprovveduti a spese di tanti, con una parte di mondo (quella definita paradossalmente come la più sviluppata!) che consuma più di quanto produce e risparmia. A questo proposito date un’occhiata al trend che si vede nel seguente grafico (che mostra la mole di debito in rapporto al prodotto interno lordo, il GDP).
Rispondete ora a questa domanda: chi sono i Paesi più virtuosi, le economie occidentali o i Paesi cosiddetti emergenti?! Beh direi che la situazione si sta capovolgendo!
Partha Dasgupta, sir Partha dal 2002 quando la regina lo ha insignito del titolo «per meriti nella disciplina economica», ha creato a Cambridge, dove ha studiato e dove insegna, una robusta scuola che coniuga economia, ambiente e sviluppo, inteso come crescita sostenibile; un encomiabile esempio di pensiero alternativo e più etico. Non crescita drogata dalla creazione di carta, capite?!
Nato 67 anni fa a Dhaka, allora India e oggi Bangladesh, ha anche insegnato filosofia a Stanford, negli Stati Uniti. E insieme a una solida base matematica, un biglietto da visita da mezzo secolo inevitabile fra gli economisti, ha mantenuto un approccio che sposa l’econometria, cioè quanto di più concreto e numerico esista nella disciplina, e pensiero, risposta ai quesiti eterni.
La sintesi del Suo pensiero è racchiusa in un libro che consiglio a tutti:
“Economics. A very short introduction” (traduzione italiana Economia, Una breve introduzione, edizioni Vita e Pensiero).
Ecco il link: http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-dasgupta_partha/sku-12815141/economia_una_breve_introduzione_.htm
Partha Dasgupta afferma:
”Se dico che oggi il Pil è superiore del 5% rispetto a una data passata, sembra un notevole progresso. Ma quale è quella data? Vicinissima, tre anni, quattro al massimo. Vivevamo così male quattro anni fa? No, più o meno come oggi. Allora, il Pil è affidabile, riflette qualcosa di reale fino in fondo, oppure è una misura parziale e imprecisa?”.
Ebbene, il problema è proprio quello di far rientrare le cose reali nei calcoli e nei dati economici; la terra o la natura intesa come aria, acqua, foreste nel tempo e a causa dell’uomo subisce cambiamenti che dovrebbero essere compresi nel calcolo di indicatori di benessere come può essere il PIL. Ma anche le ricchezze immateriali che segnano la qualità della vita, come la salute, le libertà politiche e civili, l’istruzione cioè quello che concorre a formare il capitale umano e sociale. A ognuna di queste componenti Dasgupta associa una definizione e una precisa metodologia di misurazione, proponendo, contemporaneamente, una rigorosa strumentazione di analisi ed un’innovativa visione della sfera economica più sensibile al fattore umano. Questo approccio nuovo vorrebbe dire costruire un nuovo paradigma e rappresenterebbe un monito per i Governi e le Autorità preposte ai controlli sull’economia e sui mercati finanziari. Ebbene, penso che in un momento di transizione della teoria economica, profondamente scottata dalla crisi della finanza e dei modelli di moral hazard che l'hanno favorita, Dasgupta ha una percezione innovativa perché sa usare tutti gli “attrezzi del mestiere” di economista, ma anche guardare oltre con pensieri laterali innovativi.
Lui non ha mai fatto parte, nonostante gli studi matematici, della numerosissima scuola che a un certo punto ha cercato di interpretare il passato e, purtroppo per noi, anche il futuro dell'economia sull'unica scorta di eleganti formule matematiche e complicati algoritmi. Lui non è come certi banchieri centrali (Alan Greenspan tanto per fare il nome di un ex) che sostengono che la tempesta sui mercati è stata un fatto sporadico, più o meno imprevisto e imprevedibile perché i modelli avevano lasciato scoperto proprio quel piccolo spazio nel quale la crisi si è infilata; un cigno nero direbbe Nassim Nicholas Taleb, ma di cigni neri il mondo è pieno!
Ecco un altro passaggio del pensiero di Dasgupta che dovrebbe, in parte, confortare noi Europei:
”Negli Stati Uniti non sarà facile abbandonare una concezione in cui il Pil è dominante, se non totalizzante. In Europa invece vedo assai più spazi di innovazione, perché culture assolutamente di mercato convivono da sempre con culture più sociali. E questo secondo me sarà una forza quando si presenterà, inevitabilmente, un nuovo rapporto tra produzione e lavoro”.È stata l'Asia, soprattutto, a fornire negli ultimi decenni quel miliardo in più di lavoratori del sistema industriale che ha cambiato i flussi commerciali e finanziari, e sarà l'Asia a determinare, più di altri, quel mondo fatto da un diverso rapporto tra produzione e lavoro che Dasgupta intravede. Ma sarà l'Europa a coniugare il nuovo paradigma. Come? Risponde Dasgupta:
“Non lo so. Ma credo che sarà impossibile produrre come oggi con un 50% della popolazione mondiale in più. Dell'Europa mi interessano molto le differenze interne, credo che il movimento cooperativo, in senso lato, potrà fornire spunti interessanti. Ci saranno meno risorse naturali per tutti, e l'Europa che ne ha meno di altri continenti sarà all'avanguardia nell'affrontare il mondo di domani. Ma credo proprio che il nocciolo della questione, per l'economia di domani, sarà come allentare il nodo tra Pil e occupazione. E un'area meno omogenea di altre, come l'Europa, ha più opportunità di fornire la risposta giusta e compatibile”.
Se temi come lo sviluppo sostenibile, la limitatezza delle risorse della Terra, il riscaldamento globale sono ormai entrati nel dibattito pubblico, è paradossale che il senso comune, i media, i Governi e le politiche economiche non considerino l’ambiente tra gli indicatori del benessere umano. Partha Dasgupta, al contrario, mostra come l’ambiente possa e debba essere integrato nel ragionamento economico, delineando una vera e propria economia ecologica e rendendo accessibili anche ai “non addetti ai lavori” le connessioni esistenti tra biodiversità ed ecosistema, scarsità delle risorse e possibilità economiche future.
E i nostri beneamati mercati finanziari? Beh, se i dati macroeconomici stessi sono poco rappresentativi della realtà e non sono in grado di coglierne i cambiamenti, figuriamoci le Piazze finanziarie!
Chiudo il post allegandovi il link di un video di un interessante intervento di Dasgupta, tratto da Youtube:
http://www.youtube.com/watch?v=bWUe-CUv65Y
Continuiamo allora a parlare di disequilibri e diseguaglianze per meglio interpretarli, capirli e correggerli attraverso la costruzione di mondi alternativi. Traggo lo spunto per gli argomenti dibattuti in questo post anche da un felice recente accadimento: la laurea Honoris causa assegnata dall’Università di Rimini ad un eminente economista: Partha Dasgupta
(ecco il link della notizia:
http://ilrestodelcarlino.ilsole24ore.com/rimini/cronaca/2010/01/22/284072-universita_laurea_honorem.shtml).
Per chi non conosce questo illuminato pensatore allego il link di wikipedia:
http://en.wikipedia.org/wiki/Partha_Dasgupta
Da tanti anni, mi trovo, per ragioni di lavoro, a maneggiare dati macroeconomici, a studiarli e digerirli con la finalità di cercare di comprendere se il mondo degli investimenti nel quale nuoto è in equilibrio oppure no; tuttavia, mai come in questo periodo, avverto un divario tra la realtà delle cose e quello che questi dati ci stanno dicendo. Nelle recenti Financial Markets LAB Newsletter ho più volte criticato, ad esempio, la bontà e l’attendibilità dei dati sull’occupazione Statunitense. Ecco la ragione percui voglio parlarvi di Dasgupta: perché questo economista vuole studiare disequilibri ed inefficienze delle economie in cui viviamo introducendo un nuovo paradigma, un nuovo approccio.
Secondo questo eminente pensatore i modelli economici sono carenti e vanno arricchiti per poter egregiamente rappresentare la realtà perché, solitamente, tengono conto del capitale, del lavoro ma si dimenticano di una importante variabile: la terra o la natura nel senso ampio del termine!
Guardiamo un attimo le previsioni sulla crescita della popolazione mondiale: si parla di qualcosa come 9-9.5 miliardi e mezzo di persone nel 2050! Guardate poi il grafico seguente che mostra due trend inesorabili: la crescita della popolazione mondiale e il calo dei terreni coltivabili.
Allora, come non dare ragione a Dasgupta?! Non si può trascurare il valore della terra e di quanto essa produce quando si vuole modellizzare la realtà per fare previsioni o stime economico-statistiche della realtà.
“Gli economisti si sono creati un immagine mentale dell’attività economica che contempla poco la natura: i modelli di crescita parlano solo di capitale fisico, di conoscenza, più recentemente anche di capitale umano” dice Dasgupta.
E aggiunge:
”Si è alimentata la credenza subconscia che la natura non abbia davvero importanza e questo ha dato vita a una percezione alterata della realtà, soprattutto tenuto conto delle attuali dimensioni della popolazione umana e del livello dell’attività economica inconcepibile nel passato”.
Certo, se ripercorriamo a ritroso gli ultimi anni quello che vediamo è un mondo cresciuto a ritmi medi del 3% con enormi disuguaglianze sociali, con utilizzi impropri degli strumenti di crescita economica e controllo dell’inflazione (aumento della massa monetaria all’inverosimile!) con socializzazioni forzate del debito privato creato da pochi sprovveduti a spese di tanti, con una parte di mondo (quella definita paradossalmente come la più sviluppata!) che consuma più di quanto produce e risparmia. A questo proposito date un’occhiata al trend che si vede nel seguente grafico (che mostra la mole di debito in rapporto al prodotto interno lordo, il GDP).
Rispondete ora a questa domanda: chi sono i Paesi più virtuosi, le economie occidentali o i Paesi cosiddetti emergenti?! Beh direi che la situazione si sta capovolgendo!
Partha Dasgupta, sir Partha dal 2002 quando la regina lo ha insignito del titolo «per meriti nella disciplina economica», ha creato a Cambridge, dove ha studiato e dove insegna, una robusta scuola che coniuga economia, ambiente e sviluppo, inteso come crescita sostenibile; un encomiabile esempio di pensiero alternativo e più etico. Non crescita drogata dalla creazione di carta, capite?!
Nato 67 anni fa a Dhaka, allora India e oggi Bangladesh, ha anche insegnato filosofia a Stanford, negli Stati Uniti. E insieme a una solida base matematica, un biglietto da visita da mezzo secolo inevitabile fra gli economisti, ha mantenuto un approccio che sposa l’econometria, cioè quanto di più concreto e numerico esista nella disciplina, e pensiero, risposta ai quesiti eterni.
La sintesi del Suo pensiero è racchiusa in un libro che consiglio a tutti:
“Economics. A very short introduction” (traduzione italiana Economia, Una breve introduzione, edizioni Vita e Pensiero).
Ecco il link: http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-dasgupta_partha/sku-12815141/economia_una_breve_introduzione_.htm
Partha Dasgupta afferma:
”Se dico che oggi il Pil è superiore del 5% rispetto a una data passata, sembra un notevole progresso. Ma quale è quella data? Vicinissima, tre anni, quattro al massimo. Vivevamo così male quattro anni fa? No, più o meno come oggi. Allora, il Pil è affidabile, riflette qualcosa di reale fino in fondo, oppure è una misura parziale e imprecisa?”.
Ebbene, il problema è proprio quello di far rientrare le cose reali nei calcoli e nei dati economici; la terra o la natura intesa come aria, acqua, foreste nel tempo e a causa dell’uomo subisce cambiamenti che dovrebbero essere compresi nel calcolo di indicatori di benessere come può essere il PIL. Ma anche le ricchezze immateriali che segnano la qualità della vita, come la salute, le libertà politiche e civili, l’istruzione cioè quello che concorre a formare il capitale umano e sociale. A ognuna di queste componenti Dasgupta associa una definizione e una precisa metodologia di misurazione, proponendo, contemporaneamente, una rigorosa strumentazione di analisi ed un’innovativa visione della sfera economica più sensibile al fattore umano. Questo approccio nuovo vorrebbe dire costruire un nuovo paradigma e rappresenterebbe un monito per i Governi e le Autorità preposte ai controlli sull’economia e sui mercati finanziari. Ebbene, penso che in un momento di transizione della teoria economica, profondamente scottata dalla crisi della finanza e dei modelli di moral hazard che l'hanno favorita, Dasgupta ha una percezione innovativa perché sa usare tutti gli “attrezzi del mestiere” di economista, ma anche guardare oltre con pensieri laterali innovativi.
Lui non ha mai fatto parte, nonostante gli studi matematici, della numerosissima scuola che a un certo punto ha cercato di interpretare il passato e, purtroppo per noi, anche il futuro dell'economia sull'unica scorta di eleganti formule matematiche e complicati algoritmi. Lui non è come certi banchieri centrali (Alan Greenspan tanto per fare il nome di un ex) che sostengono che la tempesta sui mercati è stata un fatto sporadico, più o meno imprevisto e imprevedibile perché i modelli avevano lasciato scoperto proprio quel piccolo spazio nel quale la crisi si è infilata; un cigno nero direbbe Nassim Nicholas Taleb, ma di cigni neri il mondo è pieno!
Ecco un altro passaggio del pensiero di Dasgupta che dovrebbe, in parte, confortare noi Europei:
”Negli Stati Uniti non sarà facile abbandonare una concezione in cui il Pil è dominante, se non totalizzante. In Europa invece vedo assai più spazi di innovazione, perché culture assolutamente di mercato convivono da sempre con culture più sociali. E questo secondo me sarà una forza quando si presenterà, inevitabilmente, un nuovo rapporto tra produzione e lavoro”.È stata l'Asia, soprattutto, a fornire negli ultimi decenni quel miliardo in più di lavoratori del sistema industriale che ha cambiato i flussi commerciali e finanziari, e sarà l'Asia a determinare, più di altri, quel mondo fatto da un diverso rapporto tra produzione e lavoro che Dasgupta intravede. Ma sarà l'Europa a coniugare il nuovo paradigma. Come? Risponde Dasgupta:
“Non lo so. Ma credo che sarà impossibile produrre come oggi con un 50% della popolazione mondiale in più. Dell'Europa mi interessano molto le differenze interne, credo che il movimento cooperativo, in senso lato, potrà fornire spunti interessanti. Ci saranno meno risorse naturali per tutti, e l'Europa che ne ha meno di altri continenti sarà all'avanguardia nell'affrontare il mondo di domani. Ma credo proprio che il nocciolo della questione, per l'economia di domani, sarà come allentare il nodo tra Pil e occupazione. E un'area meno omogenea di altre, come l'Europa, ha più opportunità di fornire la risposta giusta e compatibile”.
Se temi come lo sviluppo sostenibile, la limitatezza delle risorse della Terra, il riscaldamento globale sono ormai entrati nel dibattito pubblico, è paradossale che il senso comune, i media, i Governi e le politiche economiche non considerino l’ambiente tra gli indicatori del benessere umano. Partha Dasgupta, al contrario, mostra come l’ambiente possa e debba essere integrato nel ragionamento economico, delineando una vera e propria economia ecologica e rendendo accessibili anche ai “non addetti ai lavori” le connessioni esistenti tra biodiversità ed ecosistema, scarsità delle risorse e possibilità economiche future.
E i nostri beneamati mercati finanziari? Beh, se i dati macroeconomici stessi sono poco rappresentativi della realtà e non sono in grado di coglierne i cambiamenti, figuriamoci le Piazze finanziarie!
Chiudo il post allegandovi il link di un video di un interessante intervento di Dasgupta, tratto da Youtube:
http://www.youtube.com/watch?v=bWUe-CUv65Y
martedì 19 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Eccessi e Disequilibri
L'inoltro dei primi due numeri della Financial Markets LAB newsletter ha scatenato una miriade di domande tra i miei cari lettori. La richiesta che accomuna molte delle decine di mail che ho ricevuto è: "puoi approfondire la questione dei disequilibri che si sono venuti a creare in questi ultimi anni nell'economia Usa?"
Ovviamente non mi basterebbe un post. Tuttavia qualche numero ve lo posso commentare.
Cominciamo dalla consumer spending, cioè la spesa per consumi degli americani; per anni gli yankee hanno consumato beni e servizi al di sopra delle loro possibilità; ancora oggi la spesa per consumi è su livelli insostenibili, il 71% del Pil, rispetto ai livelli del trentennio 1955-1985, quando la consumer spending si aggirava intorno al 61%-64%.
Ma le famiglie statunitensi si sono abituate a consumare indebitandosi; compro il bene che mi serve (la casa, l'automobile, etc.) anche se non me lo posso permettere. A tutt'oggi il rapporto
Household debt/gdp è su livelli stratosferici (98%) rispetto alle medie storiche (57% del Pil negli ultimi 55 anni).
Inoltre, negli ultimi anni gli americani non si sono nemmeno preoccupati di fare le formichine risparmiando, anzi! Oggi il tasso di risparmio delle famiglie è al 4.4% del reddito disponibile mentre prima degli anni '90 era tra il 7% e l'11%.
Tra le conseguenze di questi eccessi, ricordo la debacle della ricchezza netta delle famiglie, giù del 12% anno su anno (dato peggiore degli ultimi 57 anni) e il credito al consumo, sprofondato del 4% (livelli più bassi degli ultimi 44 anni).
Come può un'economia crescere in modo sano e virtuoso in presenza di questi disequilibri?! Sino a che questi ed altri parametri macroeconomici non rientreranno nelle medie storiche del passato, l'economia Usa non potrà che passare di bolla finanziaria in bolla finanziaria. Questo proprio perchè a livello finanziario i disequilibri creano crescite indiscriminate dei prezzi delle attività finanziarie.
Ovviamente non mi basterebbe un post. Tuttavia qualche numero ve lo posso commentare.
Cominciamo dalla consumer spending, cioè la spesa per consumi degli americani; per anni gli yankee hanno consumato beni e servizi al di sopra delle loro possibilità; ancora oggi la spesa per consumi è su livelli insostenibili, il 71% del Pil, rispetto ai livelli del trentennio 1955-1985, quando la consumer spending si aggirava intorno al 61%-64%.
Ma le famiglie statunitensi si sono abituate a consumare indebitandosi; compro il bene che mi serve (la casa, l'automobile, etc.) anche se non me lo posso permettere. A tutt'oggi il rapporto
Household debt/gdp è su livelli stratosferici (98%) rispetto alle medie storiche (57% del Pil negli ultimi 55 anni).
Inoltre, negli ultimi anni gli americani non si sono nemmeno preoccupati di fare le formichine risparmiando, anzi! Oggi il tasso di risparmio delle famiglie è al 4.4% del reddito disponibile mentre prima degli anni '90 era tra il 7% e l'11%.
Tra le conseguenze di questi eccessi, ricordo la debacle della ricchezza netta delle famiglie, giù del 12% anno su anno (dato peggiore degli ultimi 57 anni) e il credito al consumo, sprofondato del 4% (livelli più bassi degli ultimi 44 anni).
Come può un'economia crescere in modo sano e virtuoso in presenza di questi disequilibri?! Sino a che questi ed altri parametri macroeconomici non rientreranno nelle medie storiche del passato, l'economia Usa non potrà che passare di bolla finanziaria in bolla finanziaria. Questo proprio perchè a livello finanziario i disequilibri creano crescite indiscriminate dei prezzi delle attività finanziarie.
domenica 17 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Importantissima comunicazione ai lettori del Blog e della Financial Markets LAB Newsletter
Questa mattina sono riuscito a ripristinare la casella di posta del Blog e tutto è tornato alla normalità!
Ho finito di leggere i messaggi di stupore ed incomprensione che mi avete mandato dopo aver ricevuto quella sorta di spam a nome Financial Markets LAB. Sto provvedendo a risponderVi visto che molti di voi non si connettono con regolarità al Blog (dove ho anche messo un avviso) per spiegare l'accaduto.
Quello che conta è che tutto ora è tornato alla normalità.
Provvederò al più presto anche all'inoltro del secondo numero del 2010 della Financial Markets LAB Newsletter.
A presto
Ho finito di leggere i messaggi di stupore ed incomprensione che mi avete mandato dopo aver ricevuto quella sorta di spam a nome Financial Markets LAB. Sto provvedendo a risponderVi visto che molti di voi non si connettono con regolarità al Blog (dove ho anche messo un avviso) per spiegare l'accaduto.
Quello che conta è che tutto ora è tornato alla normalità.
Provvederò al più presto anche all'inoltro del secondo numero del 2010 della Financial Markets LAB Newsletter.
A presto
sabato 16 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Pubblicazione del secondo numero del 2010 della Financial Markets LAB Newsletter
Sono molto arrabbiato! Non capisco perchè ci siano degli idioti che si divertono a violare dal punto di vista informatico le mail degli altri e, approfittando degli indirizzi presenti nella rubrica, mandano spam o virus a pioggia. Non ho parole; i pirati informatici dovrebbero essere condannati dalla legge con pene severe! A causa di quello che è successo ieri, non riesco più ad accedere alla casella di posta del blog, finmklab@yahoo.it, visto che l'Amministratore (Yahoo) accortosi della violazione, ieri sera l'ha temporaneamente bloccata. Spero di riuscire nei prossimi giorni a ripristinarla, poichè il blocco dovrebbe essere momentaneo.
Invito i lettori a rafforzare i cordoni di sicurezza per tutto quello che concerne le attività svolte in rete.
Intanto, visto che molti di Voi mi avevano contattato nei giorni scorsi sollecitandomi l'uscita del secondo numero del 2010 della Financial Markets LAB Newsletter, eccezionalmente ho deciso di pubblicarla sulle pagine del Blog vista la momentanea impossibilità ad inoltrarvela. Inoltre, anche il Blog Finanza Monitor (www.finanzamonitor.blogspot.com) la pubblicherà (come aveva fatto con il numero precedente) sulle Sue pagine (Grazie Finanza Monitor!).
Eccola e buona lettura....
Financial Markets LAB Newsletter – gennaio 2010 – N°2
Opportunità di investimento nel 2010: tra rischi ed opportunità – II° PARTE
Nello scorso report abbiamo parlato di rischi: sul versante della sostenibilità di una crescita economica drogata dalla creazione di carta in eccesso, a causa dell’immane debito dei Paesi Occidentali e delle exit strategy che le Banche Centrali dovranno, prima o poi, intraprendere. L’elenco dei rischi non è esaurito, ma prima voglio ripartire esattamente da dove ci eravamo lasciati: dal decennio perduto delle Borse e dell’economia. Chi avesse investito 100 euro nell’indice europeo all’inizio del 2000, oggi ne avrebbe circa 87, dividendi inclusi. Le analogie con il periodo 1968-1982 ci sono;
anche allora lo sboom iniziò dopo uno straordinario periodo di crescita iniziato con la ricostruzione dopo la fine della seconda guerra mondiale; negli anni novanta, invece, la crescita fu trainata dall’innovazione tecnologica (internet) e da una produttività stellare. Ma la crescita non dura all’infinito, in particolare, se si producono beni e servizi in eccesso rispetto a quanto la domanda può assorbire.
E’ impressionante vedere i rendimenti decennali total return(comprensivi, cioè, non solo della rivalutazione dei corsi azionari ma anche della distribuzione dei dividendi) dell’indice S&P500 della Borsa Americana dagli anni ’30 ad oggi; dal grafico a barre
qui sopra risulta anche evidente come gli anni ’50, ’80 e ’90 siano stati eccezionali dal punto di vista dei rendimenti e che passeranno alcuni lustri prima di rivederli. Più realistico dunque ipotizzare per le azioni rendimenti non stellari del 5%-7% all’anno per il decennio che abbiamo davanti, a meno che la storia non ci riservi sorprese dal punto di vista dell’innovazione tecnologica (auto ad idrogeno, energie alternative, etc).
Parlare dell’occupazione, poi, è come sparare sulla croce rossa; guardate il grafico seguente che mostra quanta occupazione è stata creata nel decennio appena trascorso. Non era mai successo, dagli anni ‘40 ad oggi, di vedere una così bassa creazione di posti di lavoro!
Torniamo ai rischi, partendo proprio dall’occupazione; in realtà, dell’occupazione abbiamo già parlato nelle scorse Financial Markets LAB Newsletter e nei vari post sul Blog; quindi non ha senso dilungarsi oltre; ribadisco solo che nel corso del 2010l’occupazione rimarrà asfittica con tendenza al peggioramento e, nella migliore delle ipotesi, potrà tendere a stabilizzarsi sui livelli raggiunti nel 2009; gli eventuali segni di miglioramento deriveranno solamente da aiuti statali e non saranno legati a scenari di crescita sostenibile. Come può migliorare l’occupazione
se grandi settori come quello immobiliare o automobilistico Americano, stanno lottando con problemi di sovra capacità produttiva?! Come ho già detto, vedo solo una via d’uscita: l’innovazione tecnologica.
Ovviamente, problemi sul versante occupazionale si ripercuotono dal lato dei consumi (circa due terzi del Pil Usa una volta era costituito dai consumi degli Americani) e della fiducia delle famiglie.
Nel sistema finanziario i problemi non sono ancora del tutto risolti; aspettiamoci nuovi fallimenti di banche nel corso di questo anno e le istituzioni creditizie che non falliranno soffriranno ancora pesantemente (mi riferisco in particolare alle
banche anglosassoni; quelle italiane sono un’altra storia, per fortuna); un esempio?
Citigroup è esposta per centinaia di miliardi di dollari nel settore real estate; non credo che il settore immobiliare Usa risorgerà questo anno; anzi, penso che il rimbalzo
in atto sarà di breve durata (vedi indicatori tipo l’S&P-Case Shiller Index); nei prossimi anni (2010-2012) una marea di mutui dovranno essere rinegoziati negli Stati Uniti; in altre parole, gente che aveva acceso mutui ARMs negli scorsi anni a condizioni
vantaggiose saranno costrette, a causa del vincolo contrattuale, a rivedere (in peggio!!) le condizioni dei loro mutui; gli ARMs sono dei mutui dove c’è un’opzione, una clausola, che permette al mutuatario di pagare un interesse molto basso per i primi
anni di vita del mutuo, successivamente l’interesse viene ricalcolato con dei parametri molto peggiorativi. Difatti da qui il prefisso ARMS = option adjustable-rate mortgages.
E come commentare la recente affermazione di Geithner (Segretario del Tesoro Americano)?!:
“We're not going to have.... a second wave of financial crisis..... We'll do what is necessary to prevent that.......and that is completely within our capacity to prevent."
Mi viene da dire una sola parola: FANTASTICO!!!
L’affermazione del Segretario del Tesoro Usa è un’ammissione implicita che le autorità Statunitensi si attendono una “second wave” magari proprio legata ai mutui ARMs o alla marea di strumenti derivati ancora annidati nei bilanci delle banche (che
dall’inizio della crisi ad oggi sono aumentati!!). Io la interpreto proprio così, come una confessione!
Sempre nella stessa recente intervista Geithner sentenziava:
"We were in a very deep hole and it is going to take a long time to repair the damage done to confidence."
Ebbene, personalmente sono davvero molto preoccupato riguardo la concreta possibilità di una seconda ondata di crisi finanziaria perché, in questo secondo round, le Autorità avrebbero meno armi a disposizione per fronteggiarla, visto che, come ho
già scritto, gli Usa hanno già emesso più passività di una “Repubblica delle banane”. Un altro segnale preoccupante è legato alle recenti affermazioni riguardo la decisione del
Tesoro Usa, annunciata il 24 dicembre scorso, di fornire un sostegno finanziario illimitato a Fannie Mae e Freddie Mac, le due agenzie semigovernative che forniscono mutui a tasso agevolato negli Usa (finora le due agenzie hanno ricevuto qualcosa come
60 e 51 miliardi di dollari di aiuti); questa notizia, assolutamente pessima dal punto di vista etico (il Tesoro Usa sta dicendo all’americano medio: “accendi pure un mutuo, poi anche se non sei in grado di ripagarlo, intervengo io, con i soldi di
tutti i contribuenti per ripianare le perdite!! Come faccio?! Faccio stampare cartamoneta dalla Federal Reserve e ricompro i titoli spazzatura che sono nell’attivo di Fannie & Freddie, semplice no?!”) potrebbe essere la punta di un iceberg di problemi legati al mercato immobiliare e, probabilmente, il Tesoro
Americano vuole giocare d’anticipo.
Tra le possibili soluzioni alla crisi, oltre alla più volte citata innovazione tecnologica avrei potuto inserire un’altra importante variabile: il sostegno allo sviluppo mondiale delle grandi economie emergenti (oramai emergenti neanche più di tanto!): Cina e India
in testa. Ma come è successo nei passati “inverni di Kondratieff” (vedi grafico) durante le crisi si alzano steccati e barriere; paradossalmente “le economie si arroccano dentro castelli medievali” per difendersi e fronteggiare dure guerre commerciali.
Come ha più volte sottolineato Paul Krugman, la Cina è una grande potenza finanziaria e commerciale che però non si muove in coordinamento con le altre grandi economie. L’esempio più eclatante di questa affermazione è lo yuan fermo per legge al valore di
6.8 rispetto al dollaro. L’International Trade Commission ha deciso di rispondere con l’utilizzo dei dazi; proprio gli Usa (tra l’altro, dopo che Obama si è recato in Cina poche settimane fa a sostenere la causa Americana) applicheranno dazi dal 10% al
16% sui tubi d’acciaio made in Cina. Usa ed Unione Europea hanno più volte spinto la Cina a rivalutare la propria moneta; proprio alcuni giorni fa il governo cinese ha risposto freddamente che ogni decisione verrà presa secondo i tempi e i modi ritenuti più opportuni. Tra Usa e Cina ci sono in ballo qualcosa come 400 miliardi (dollaro più dollaro meno) di scambi commerciali e, al momento, risulta difficile capire come andrà a finire.
Il quadro che ho dipinto è a tinte fosche lo so, anche se qualche opportunità di investimento, come abbiamo visto anche nella I° PARTE non mancherà; l’elenco dei rischi non finirebbe qui; ho voluto evidenziarvi quelli più eclatanti. Concludo questo
numero della Financial Markets LAB Newsletter segnalandovi che qualcuno che sta meglio nel mondo e gode di buona salute c’è: le economie dei mercati emergenti ovvero proprio Cina, India, Russia e Brasile in testa. Ho questa convinzione: ritengo che i mercati azionari di queste economie siano da accumulare sulle debolezze vista la forza delle loro economie, che cresceranno a ritmi compresi tra il 5% ed il 10% contro le asfittiche crescite del 2%-3%dei G-10. Vi segnalo infine una frase di V. Lenin (non sono certamente un ammiratore del suo pensiero politico-economico, ma l’affermazione, se riferita all’operato degli Usa degli
ultimi due anni e mezzo, è molto attuale!):
“The best way to destroy the capitalist system is to debauch the currency.”
Per il momento è tutto. Passo e chiudo.
Invito i lettori a rafforzare i cordoni di sicurezza per tutto quello che concerne le attività svolte in rete.
Intanto, visto che molti di Voi mi avevano contattato nei giorni scorsi sollecitandomi l'uscita del secondo numero del 2010 della Financial Markets LAB Newsletter, eccezionalmente ho deciso di pubblicarla sulle pagine del Blog vista la momentanea impossibilità ad inoltrarvela. Inoltre, anche il Blog Finanza Monitor (www.finanzamonitor.blogspot.com) la pubblicherà (come aveva fatto con il numero precedente) sulle Sue pagine (Grazie Finanza Monitor!).
Eccola e buona lettura....
Financial Markets LAB Newsletter – gennaio 2010 – N°2
Opportunità di investimento nel 2010: tra rischi ed opportunità – II° PARTE
Nello scorso report abbiamo parlato di rischi: sul versante della sostenibilità di una crescita economica drogata dalla creazione di carta in eccesso, a causa dell’immane debito dei Paesi Occidentali e delle exit strategy che le Banche Centrali dovranno, prima o poi, intraprendere. L’elenco dei rischi non è esaurito, ma prima voglio ripartire esattamente da dove ci eravamo lasciati: dal decennio perduto delle Borse e dell’economia. Chi avesse investito 100 euro nell’indice europeo all’inizio del 2000, oggi ne avrebbe circa 87, dividendi inclusi. Le analogie con il periodo 1968-1982 ci sono;
anche allora lo sboom iniziò dopo uno straordinario periodo di crescita iniziato con la ricostruzione dopo la fine della seconda guerra mondiale; negli anni novanta, invece, la crescita fu trainata dall’innovazione tecnologica (internet) e da una produttività stellare. Ma la crescita non dura all’infinito, in particolare, se si producono beni e servizi in eccesso rispetto a quanto la domanda può assorbire.
E’ impressionante vedere i rendimenti decennali total return(comprensivi, cioè, non solo della rivalutazione dei corsi azionari ma anche della distribuzione dei dividendi) dell’indice S&P500 della Borsa Americana dagli anni ’30 ad oggi; dal grafico a barre
qui sopra risulta anche evidente come gli anni ’50, ’80 e ’90 siano stati eccezionali dal punto di vista dei rendimenti e che passeranno alcuni lustri prima di rivederli. Più realistico dunque ipotizzare per le azioni rendimenti non stellari del 5%-7% all’anno per il decennio che abbiamo davanti, a meno che la storia non ci riservi sorprese dal punto di vista dell’innovazione tecnologica (auto ad idrogeno, energie alternative, etc).
Parlare dell’occupazione, poi, è come sparare sulla croce rossa; guardate il grafico seguente che mostra quanta occupazione è stata creata nel decennio appena trascorso. Non era mai successo, dagli anni ‘40 ad oggi, di vedere una così bassa creazione di posti di lavoro!
Torniamo ai rischi, partendo proprio dall’occupazione; in realtà, dell’occupazione abbiamo già parlato nelle scorse Financial Markets LAB Newsletter e nei vari post sul Blog; quindi non ha senso dilungarsi oltre; ribadisco solo che nel corso del 2010l’occupazione rimarrà asfittica con tendenza al peggioramento e, nella migliore delle ipotesi, potrà tendere a stabilizzarsi sui livelli raggiunti nel 2009; gli eventuali segni di miglioramento deriveranno solamente da aiuti statali e non saranno legati a scenari di crescita sostenibile. Come può migliorare l’occupazione
se grandi settori come quello immobiliare o automobilistico Americano, stanno lottando con problemi di sovra capacità produttiva?! Come ho già detto, vedo solo una via d’uscita: l’innovazione tecnologica.
Ovviamente, problemi sul versante occupazionale si ripercuotono dal lato dei consumi (circa due terzi del Pil Usa una volta era costituito dai consumi degli Americani) e della fiducia delle famiglie.
Nel sistema finanziario i problemi non sono ancora del tutto risolti; aspettiamoci nuovi fallimenti di banche nel corso di questo anno e le istituzioni creditizie che non falliranno soffriranno ancora pesantemente (mi riferisco in particolare alle
banche anglosassoni; quelle italiane sono un’altra storia, per fortuna); un esempio?
Citigroup è esposta per centinaia di miliardi di dollari nel settore real estate; non credo che il settore immobiliare Usa risorgerà questo anno; anzi, penso che il rimbalzo
in atto sarà di breve durata (vedi indicatori tipo l’S&P-Case Shiller Index); nei prossimi anni (2010-2012) una marea di mutui dovranno essere rinegoziati negli Stati Uniti; in altre parole, gente che aveva acceso mutui ARMs negli scorsi anni a condizioni
vantaggiose saranno costrette, a causa del vincolo contrattuale, a rivedere (in peggio!!) le condizioni dei loro mutui; gli ARMs sono dei mutui dove c’è un’opzione, una clausola, che permette al mutuatario di pagare un interesse molto basso per i primi
anni di vita del mutuo, successivamente l’interesse viene ricalcolato con dei parametri molto peggiorativi. Difatti da qui il prefisso ARMS = option adjustable-rate mortgages.
E come commentare la recente affermazione di Geithner (Segretario del Tesoro Americano)?!:
“We're not going to have.... a second wave of financial crisis..... We'll do what is necessary to prevent that.......and that is completely within our capacity to prevent."
Mi viene da dire una sola parola: FANTASTICO!!!
L’affermazione del Segretario del Tesoro Usa è un’ammissione implicita che le autorità Statunitensi si attendono una “second wave” magari proprio legata ai mutui ARMs o alla marea di strumenti derivati ancora annidati nei bilanci delle banche (che
dall’inizio della crisi ad oggi sono aumentati!!). Io la interpreto proprio così, come una confessione!
Sempre nella stessa recente intervista Geithner sentenziava:
"We were in a very deep hole and it is going to take a long time to repair the damage done to confidence."
Ebbene, personalmente sono davvero molto preoccupato riguardo la concreta possibilità di una seconda ondata di crisi finanziaria perché, in questo secondo round, le Autorità avrebbero meno armi a disposizione per fronteggiarla, visto che, come ho
già scritto, gli Usa hanno già emesso più passività di una “Repubblica delle banane”. Un altro segnale preoccupante è legato alle recenti affermazioni riguardo la decisione del
Tesoro Usa, annunciata il 24 dicembre scorso, di fornire un sostegno finanziario illimitato a Fannie Mae e Freddie Mac, le due agenzie semigovernative che forniscono mutui a tasso agevolato negli Usa (finora le due agenzie hanno ricevuto qualcosa come
60 e 51 miliardi di dollari di aiuti); questa notizia, assolutamente pessima dal punto di vista etico (il Tesoro Usa sta dicendo all’americano medio: “accendi pure un mutuo, poi anche se non sei in grado di ripagarlo, intervengo io, con i soldi di
tutti i contribuenti per ripianare le perdite!! Come faccio?! Faccio stampare cartamoneta dalla Federal Reserve e ricompro i titoli spazzatura che sono nell’attivo di Fannie & Freddie, semplice no?!”) potrebbe essere la punta di un iceberg di problemi legati al mercato immobiliare e, probabilmente, il Tesoro
Americano vuole giocare d’anticipo.
Tra le possibili soluzioni alla crisi, oltre alla più volte citata innovazione tecnologica avrei potuto inserire un’altra importante variabile: il sostegno allo sviluppo mondiale delle grandi economie emergenti (oramai emergenti neanche più di tanto!): Cina e India
in testa. Ma come è successo nei passati “inverni di Kondratieff” (vedi grafico) durante le crisi si alzano steccati e barriere; paradossalmente “le economie si arroccano dentro castelli medievali” per difendersi e fronteggiare dure guerre commerciali.
Come ha più volte sottolineato Paul Krugman, la Cina è una grande potenza finanziaria e commerciale che però non si muove in coordinamento con le altre grandi economie. L’esempio più eclatante di questa affermazione è lo yuan fermo per legge al valore di
6.8 rispetto al dollaro. L’International Trade Commission ha deciso di rispondere con l’utilizzo dei dazi; proprio gli Usa (tra l’altro, dopo che Obama si è recato in Cina poche settimane fa a sostenere la causa Americana) applicheranno dazi dal 10% al
16% sui tubi d’acciaio made in Cina. Usa ed Unione Europea hanno più volte spinto la Cina a rivalutare la propria moneta; proprio alcuni giorni fa il governo cinese ha risposto freddamente che ogni decisione verrà presa secondo i tempi e i modi ritenuti più opportuni. Tra Usa e Cina ci sono in ballo qualcosa come 400 miliardi (dollaro più dollaro meno) di scambi commerciali e, al momento, risulta difficile capire come andrà a finire.
Il quadro che ho dipinto è a tinte fosche lo so, anche se qualche opportunità di investimento, come abbiamo visto anche nella I° PARTE non mancherà; l’elenco dei rischi non finirebbe qui; ho voluto evidenziarvi quelli più eclatanti. Concludo questo
numero della Financial Markets LAB Newsletter segnalandovi che qualcuno che sta meglio nel mondo e gode di buona salute c’è: le economie dei mercati emergenti ovvero proprio Cina, India, Russia e Brasile in testa. Ho questa convinzione: ritengo che i mercati azionari di queste economie siano da accumulare sulle debolezze vista la forza delle loro economie, che cresceranno a ritmi compresi tra il 5% ed il 10% contro le asfittiche crescite del 2%-3%dei G-10. Vi segnalo infine una frase di V. Lenin (non sono certamente un ammiratore del suo pensiero politico-economico, ma l’affermazione, se riferita all’operato degli Usa degli
ultimi due anni e mezzo, è molto attuale!):
“The best way to destroy the capitalist system is to debauch the currency.”
Per il momento è tutto. Passo e chiudo.
venerdì 15 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - AVVISO IMPORTANTISSIMO PER TUTTI I LETTORI DEL BLOG E DELLA FINANCIAL MARKETS LAB NEWSLETTER
DIVERSI LETTORI MI HANNO SEGNALATO DI AVER RICEVUTO UNA MAIL DA FINANCIAL MARKETS LAB CON UNA FANTOMATICA RICHIESTA DI AIUTO.
OVVIAMENTE E' TUTTO FRUTTO DI SPAMMING; QUALCUNO E' ENTRATO NELLA MIA CASELLA DI POSTA INVIANDO MAIL PAZZE A TUTTI GLI INDIRIZZI PRESENTI NELLA RUBRICA. PERTANTO NON APRITE ALCUNA MAIL SE NELL'OGGETTO NON C'E' SCRITTO "FINANCIAL MARKETS LAB NEWSLETTER" O SE NON SI TRATTA DI MAIL CHE HO INVIATO PER RISPONDERE A VOSTRE DOMANDE. SPERO DI RISOLVERE IL PROBLEMA AL PIU' PRESTO.
NELLA PEGGIORE DELLE IPOTESI CAMBIERO L'INDIRIZZO MAIL E LO COMUNICHERO' TRAMITE IL BLOG.
A PRESTO
OVVIAMENTE E' TUTTO FRUTTO DI SPAMMING; QUALCUNO E' ENTRATO NELLA MIA CASELLA DI POSTA INVIANDO MAIL PAZZE A TUTTI GLI INDIRIZZI PRESENTI NELLA RUBRICA. PERTANTO NON APRITE ALCUNA MAIL SE NELL'OGGETTO NON C'E' SCRITTO "FINANCIAL MARKETS LAB NEWSLETTER" O SE NON SI TRATTA DI MAIL CHE HO INVIATO PER RISPONDERE A VOSTRE DOMANDE. SPERO DI RISOLVERE IL PROBLEMA AL PIU' PRESTO.
NELLA PEGGIORE DELLE IPOTESI CAMBIERO L'INDIRIZZO MAIL E LO COMUNICHERO' TRAMITE IL BLOG.
A PRESTO
domenica 3 gennaio 2010
DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Comunicazione ai lettori
Avviso tutti i lettori del Blog che è in uscita la prima Financial Markets LAB Newsletter del 2010. Nel numero in uscita e nel prossimo parlerò dei rischi e delle opportunità di investimento che ci attendono in questo nuovo anno.
Chi non è ancora abbonato può riceverla gratuitamente mandando una richiesta all'indirizzo:
finmklab@yahoo.it
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