Inflazione si o inflazione no?! Pare che nelle ultime settimane i mercati finanziari si siano impantanati proprio su questa domanda; i mercati azionari paiono aver esaurito il bear market rally innescato da un rientro dell'avversione al rischio e le parti lunghe delle curve dei rendimenti hanno sofferto dell'incertezza riguardante anche gli ultimi dati sull'inflazione statunitense. E proprio riguardo l'inflazione Usa molti economisti paiono schierarsi a favore dell'ipotesi che il dato reale dell'inflazione americana dovrebbe essere decisamente superiore ai dati ufficiali che risentono di distorsioni di calcolo statistico.
Negli ultimi mesi un contributo significativo ai timori inflazionistici lo hanno dato i rialzi delle materie prime, in particolare i prezzi degli energetici e degli alimentari. Tuttavia appare curioso come per esempio, proprio in Usa una buona parte della responsabilità dell'inflazione sia dovuta ad un "colpevole" al di sopra di ogni sospetto: il dollaro, come si vede dal grafico 1. La svalutazione del biglietto verde ha "importato inflazione".
Altri fattori potenzialmente scatenanti dell'inflazione sono rappresentati, come noto, dal costo del lavoro e dal grado di apertura di un'economia.
Sul primo aspetto la situazione è abbastanza confortante come si può vedere nel grafico 2 in alto.
Anche il grado di apertura, nel caso degli Stati Uniti, è andato crescendo nel tempo, come si vede dal grafico 3 che mostra le esportazioni come percentuale del Gdp.
Il rischio è rappresentato da eventuali rigurgiti protezionistici che possano alterare il cosidetto "effetto globalizzazione" che ha consentito ai Paesi industrializzati di ridurre il costo della manodopera trasferendo nei Paesi Emergenti le produzioni manifatturiere e grazie al quale stiamo assistendo ad un trend ribassista secolare dell'inflazione.
Le tensioni sui prezzi delle materie prime ed agricole, pertanto, se nel breve termine rappresentano un problema di gestione della politica monetaria da parte della Federal Reserve che pare costretta ad interrompere il processo di allentamento monetario mettendosi on hold in attesa di verificare le dinamiche dei prezzi, nel lungo termine non dovrebbe spingere la Banca Centrale Americana a rialzare bruscamente ed ininterrottamente i tassi.
Così nelle scorse settimane gli operatori hanno innescato il solito processo mentale causa-effetto (è il noto demone di Laplace!!!!!) e hanno dedotto: rischio inflazione=politica monetaria restrittiva=rialzo dei tassi=ritorno dei problemi sul fronte creditizio e della crescita economica=mancanza di sostegno ai corsi azionari e ai corsi delle obbligazioni (in particolare quelle a lungo termine).
In realtà secondo alcuni eminenti economisti (tipo M. Feldstein) la stessa politica monetaria espansiva della Fed è inflazionistica perchè, come in un circolo vizioso, spinge gli operatori ad indebitarsi per acquistare materie prime e rimpolparne le scorte, alimentando così la salita dei prezzi.
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