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domenica 20 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Risorse energetiche, democrazia e crescita economica

La tragedia giapponese e l’instabilità dei paesi nord africani riaprono prepotentemente il dibattito sulla scelta delle fonti di energia che deve fare un paese. Come tutti sappiamo, a giugno in Italia ci sarà un referendum che ci farà scegliere o rifiutare l’energia nucleare. Già nel 1987 gli italiani avevano detto NO AL NUCLEARE. In modo obsoleto l’attuale classe politica, senza un vero piano energetico per il paese, vuole tentare nuovamente di propinare gli oligarchi dell’energia nucleare (non bastavano quelli delle energie fossili!) agli italiani.
Dal mio punto di vista, chi detiene l’energia gestisce il potere sui popoli e, pertanto, un paese democratico, per potersi fregiare appieno di questa caratteristica dovrebbe, mettere a disposizione della propria gente l’energia necessaria alla quotidianità e alla vita. Naturalmente, uno stato civile dovrebbe rendere disponibile le fonti energetiche ad un costo accessibile a chiunque senza creare nessun tipo di barriera legata al ceto sociale o alla disponibilità economica. Purtroppo questo non è mai stato possibile perché gli stati stessi in giro per il mondo sono, a loro volta, alle dipendenze di altri stati che possiedono, più di altri, le risorse energetiche comunemente usate (fossili e nucleare); queste ultime pertanto, che dovrebbero essere considerate patrimonio dell’umanità (come l’acqua che beviamo o l’aria che respiriamo) diventano leve da sfruttare per esercitare il proprio potere per arricchirsi e per speculare; al primo posto, come spesso accade in ambito economico, si pone l’avidità a detrimento della democrazia e dell’eguaglianza. Gordon Gekko nel primo Wall Street diceva:”l’avidità è giusta!”
Probabilmente, la speculazione svolge una sua utilità per i mercati finanziari ed è uno degli ingredienti (da usare con moderazione nella ricetta!) del libero mercato; tuttavia, ritengo ci siano ambiti attinenti ai bisogni essenziali dell’uomo in cui l’avidità deve essere tenuta sotto controllo da appositi organismi e da un’attenta regolamentazione; ed è proprio quello che, ad esempio, non è avvenuto nell’ultima crisi dei mutui subprime statunitensi.
Ma torniamo alle fonti energetiche; il mondo, come ci rendiamo conto nella vita quotidiana, è in mano alle oligarchie delle energie fossili e del nucleare; bisogna in parte riconoscere che senza l’energia di origine fossile (petrolio, carbone e gas naturale) l’uomo moderno non potrebbe vivere; allo stato attuale oro nero, carbone e gas naturale rappresentano circa l’80% dei consumi in giro per il mondo. Tra le fonti di energia alternative solamente le biomasse (legno, rifiuti, residui vegetali, etc.) si sono ricavate un ruolo importante (stando ai dati in mio possesso che però risalgono al 2004, rappresentavano circa il 10% del consumo totale di energia). L’energia nucleare rappresenta circa il 6.5% (dati del 2004 dell’IEA). Sole e vento svolgono ancora un ruolo del tutto marginale, nonostante i mass media continuino a decantarne le lodi e ad accusare i governi riguardo la trascuratezza che nutrono nei confronti di queste due fonti di energia. La domanda è: PERCHE’ I GOVERNI MONDIALI NON CREDONO NELLE ENERGIE RINNOVABILI?! Una possibile risposta è: perché le fonti fossili di energia sono insuperabili in termini di densità di energia e densità di potenza, cioè sono in grado di fornirci enormi quantitativi di energia da concentrazioni ridotte di spazio e materia prima.
PERO’ QUESTA SITUAZIONE E’ ANCHE COLPA DEI GOVERNI perché non destinano un quantitativo sufficiente di fondi indispensabili per una ricerca scientifica che sia volta proprio ad aumentare l’efficienza, la flessibilità e la facilità di utilizzo delle fonti energetiche alternative; negli ultimi decenni tutti i paesi industrializzati hanno destinato più dell’80% dei fondi pubblici alla ricerca sull’energia nucleare, trascurando completamente le altre fonti alternative; e pensare che, stando a studi effettuati, in Italia se tutti i tetti delle case avessero pannelli solari, riusciremmo a coprire circa il 45% del fabbisogno energetico nazionale!! Senza poi contare che le energie alternative hanno spazi di miglioramento della loro efficienza, proprio in termini di densità di energia e potenza.
Gli Usa, la più grande potenza economica mondiale, sono un pessimo esempio se si guardano i dati dell’ U.S. Energy Information Administration; nel 1980 i consumi energetici americani erano così ripartiti:

Petrolio 43.8%
Natural gas 25.9%
Carbone 19.7%
Nucleare 3.5%
Bio carburanti 0%
Energie rinnovabili 7%

Nel 2009 la situazione era la seguente:

Petrolio 37.3%
Natural gas 24.7%
Carbone 20.9%
Nucleare 8.8%
Bio carburanti 1%
Energie rinnovabili 7.2%

Da questi numeri emerge che gli Usa hanno ridotto i consumi di petrolio (dal 43.8% al 37.3%) ma a favore quasi totalmente dell’energia nucleare (dal 3.5% all’8.8%).
Torniamo ora al binomio energia-democrazia. Al di là degli aspetti tecnici o di convenienza economica ed ambientale, la scelta tra energie alternative o energia nucleare è cruciale dal punto di vista socio-economico. C'è dettaglio determinante: il sole, ad esempio, è un bene a disposizione di chiunque (proprio come l’aria) mentre l’uranio no; tutti potrebbero trasformare l’energia solare in elettricità con un pannello fotovoltaico mentre per trasformare l’energia nucleare in elettricità occorre una centrale. Questa considerazione è importante per capire perchè il nucleare sta tornando in voga, e si cerchi di farlo passare come succedaneo del petrolio. In realtà, il nucleare serve per non cambiare le cose e mantenere le rendite di posizione; è un sistema per continuare a mantenere i cittadini e i popoli nelle mani di pochi, cioè di chi detiene la fonte di energia e di chi la distribuisce. Esattamente come è per le vetuste energie fossili.
Inoltre se l’energia fosse basata sull’uranio, sarebbero ancora concepibili guerre per le fonti energetiche (come ancora avviene per il petrolio), mentre se l’energia fosse basata sul sole o il vento, le guerre non avrebbero senso perchè non avrebbe senso fare una guerra per accaparrarsi il sole! In pratica, le energie alternative sono DEMOCRAZIA, le energie fossili e l’energia nucleare sono OLIGARCHIA.
Tra l’altro, non bisogna farsi ingannare da chi parla di centrali solari o “parchi eolici”, perchè sono un meccanismo subdolo per mantenere ancora in piedi le rendite di posizione; questo perchè una centrale solare manterrebbe ancora i cittadini nello stato di dipendenza da altri, da chi trasforma l’energia. Allora, non basta lottare per le energie rinnovabili come sole e vento, occorre anche battersi per il decentramento energetico, perchè ogni cittadino possa produrre “con le proprie mani” l’energia che vuole.
Il problema è, allora, quello di delineare un nuovo modello energetico che soppianti quello prevalente, ancora incentrato sulla produzione centralizzata di energia.
Il panorama energetico globale vede la presenza di un numero limitato di industrie che concentrano (sistema centralizzato e oligarchico) la produzione elettrica in megacentrali a combustibili fossili e nucleari. L'elettricità prodotta viene immessa in grandi "scheletri" ad alta tensione, da cui si dipartono le reti che arrivano fino alle nostre abitazioni. Ovviamente questa complessa e costosa infrastruttura, incide in maniera significativa sul prezzo finale dell’energia e presenta una certa rigidità; questo perchè il flusso di elettricità viaggia in maniera unidirezionale, dal luogo di produzione a quello di consumo. In questo contesto, l’utente finale che utilizza energia riveste il ruolo passivo di semplice “consumatore” di energia.
Nel passato, la necessità di distribuire l’energia elettrica a milioni di persone, poteva giustificare la creazione di monopoli energetici. In Italia, ad esempio, il processo di nazionalizzazione dell’Enel, avvenuto negli anni sessanta, rispondeva proprio a questo tipo di esigenze: bisognava accentrare i capitali e le risorse in un’unica grande azienda pubblica per portare l’energia elettrica in tutto il Paese. Tuttavia, a partire dal 1992 è stato avviato un percorso di liberalizzazioni, che ha portato a un superamento del monopolio statale dell’energia elettrica, in favore di un regime (tuttora imperfetto) di concorrenza tra aziende energetiche, che ha offerto anche al singolo cittadino la possibilità di diventare un produttore di energia. In secondo luogo, il processo di elettrificazione del Paese è pienamente concluso; pertanto oggi bisogna arrivare ad un graduale smantellamento delle centrali e ripensare le modalità di produzione e consumo dell'energia.
La soluzione secondo gli esperti si chiama: generazione distribuita; questa rappresenta una diversa modalità di pensare e gestire la rete elettrica, basata non solo su grandi centrali collegate a reti estese di tralicci, bensì su unità produttive (campi eolici, fotovoltaici, centrali a biomasse, cogeneratori) di piccole-medie dimensioni, distribuite omogeneamente sul territorio e collegate direttamente alle utenze o comunque a reti a basso voltaggio.
Uno dei maggiori vantaggi della generazione distribuita consiste nella minore lunghezza delle reti di distribuzione e trasmissione dell’elettricità. Le lunghe reti ad alta tensione: a) perdono per strada circa il 7% dell’elettricità trasportata; b) comportano ingenti costi di costruzione e manutenzione (che paghiamo in bolletta); c) sono a costante rischio di black-out. La generazione distribuita, invece, è al riparo da questi rischi, perché: a) avvicina la centrale elettrica, o meglio più centrali elettriche interconnesse, al luogo di utilizzo finale dell’energia; b) aumenta l’affidabilità della rete, poiché il fermo di un impianto non comporta l’interruzione della fornitura, ma viene compensato dalla presenza delle altre centrali. La rete elettrica deve trasformarsi gradualmente da rete "passiva", in cui l'elettricità semplicemente scorre dal luogo di produzione a quello di consumo, a rete "attiva" e "intelligente" (smart grid), capace di gestire e regolare più flussi elettrici che viaggiano in maniera discontinua e bidirezionale. E’ difficile immaginare, all’interno dell’attuale contesto centralizzato, la possibilità di un accesso "democratico" alle risorse energetiche da parte dei singoli individui e delle comunità locali. Ma nella prospettiva di un graduale decentramento della produzione energetica nelle mani di milioni o miliardi di piccoli produttori, viene meno il ruolo e la stessa ragion d’essere dei grandi gruppi energetici, che con le loro lunghe catene di approvvigionamento delle risorse rappresentano il principale elemento di rigidità e di conflitti all'interno dell’economia globalizzata. La scelta di “regionalizzare” l’economia energetica, oltre ad assicurare uno sviluppo locale davvero sostenibile, favorisce una progressiva autonomia politica dai paesi produttori.
Ma quando si parla di democrazia dell’energia non ci si riferisce solamente alla libertà del cittadino di prodursi l’energia necessaria; il riferimento è anche al rapporto tra risorse naturali di un paese, il suo progresso economico ed il suo livello di democrazia.
Due autori (Sachs e Warner) tra il 1995 ed il 2001 hanno studiato il rapporto tra le risorse naturali di un paese e la sua prestazione economica e hanno dimostrato l’esistenza di un rapporto negativo tra i due fattori: i paesi con abbondanza di risorse hanno goduto di un tasso di crescita minore rispetto ai paesi poveri di risorse. Di conseguenza, la loro ipotesi è che le risorse non siano tanto una benedizione per lo sviluppo economico quanto, piuttosto, una maledizione, che limita la crescita e il progresso socio-economico. Diversi sono gli elementi che sembrano dar ragione a queste teorie. I paesi ricchi di risorse naturali crescono in media più lentamente rispetto a quelli poveri di risorse (è la cosidetta maledizione delle risorse naturali). Tuttavia, ci sono alcuni paesi ricchi di risorse che sono cresciuti molto velocemente e per i quali le risorse naturali sono, al contrario, una benedizione. Questo fa sì che la prova non confermi un effetto unico delle risorse sullo sviluppo/crescita (vedi Robinson et al, 2006). L’analisi teorica ed empirica si è allora focalizzata sulle ragioni per cui le risorse naturali sono una benedizione in alcuni paesi e una maledizione in altri. I fallimenti politici sono stati identificati come le cause principali: la qualità delle istituzioni è un fattore decisivo nel determinare se le risorse naturali siano una benedizione o una maledizione (vedi Mahlum, Moene e Torvik, 2006). I risultati empirici suggeriscono anche una causalità inversa: le risorse naturali hanno proprietà antidemocratiche: la ricchezza di petrolio e minerali tende a rendere i paesi meno democratici (vedi Ross, 2001) e molte rivoluzioni sono legate alle rendite derivate dalle risorse naturali (vedi Collier e Hoeffler, 1998 e 2005). Cosa spiega la maledizione? In primo luogo, un boom di risorse naturali (come la scoperta di un nuovo bacino petrolifero), con i suoi potenti effetti sulle esportazioni, porta a una sopravvalutazione della valuta nazionale. Nello stesso tempo, il grande afflusso di entrate nel paese incoraggia la domanda interna e avvia pressioni inflazionistiche, particolarmente per i beni non commerciali. Entrambi i fenomeni tagliano fuori i settori commerciali, nei quali i profitti si riducono perché le vendite avvengono a prezzi internazionali dati, danneggiando, così, lo sviluppo complessivo del paese. Questa spirale stagflazionaria negativa è la cosiddetta “malattia olandese”. In secondo luogo, i paesi che si appoggiano sulle proprie risorse naturali possono, inavvertitamente o deliberatamente, non investire in risorse umane. Dal momento che, nelle economie contemporanee, queste rappresentano il carburante principale di una crescita sostenuta, i paesi ricchi di risorse naturali si trovano imprigionati nella trappola della povertà. In terzo luogo, come generalizzazione dell’argomento precedente, l’abbondanza di risorse naturali può dare ai cittadini e ai governi un falso senso di sicurezza, determinando la non-implementazione di politiche economiche efficienti, che incrementino la crescita. Inoltre, secondo Robinson et al. (2006) e Mehlum et al. (2006), l’impatto delle risorse sulla crescita dipende in modo cruciale dalla qualità delle istituzioni politiche e, in particolare, dal livello di corruzione del settore pubblico. Mehlum et al. mostrano che le differenze in termini di crescita economica tra i paesi ricchi di risorse è dovuta al modo in cui sono distribuite le rendite. Alcuni paesi hanno istituzioni che favoriscono i produttori e il reinvestimento delle rendite, mentre altri hanno istituzioni che, “arraffando amichevolmente”, deviano le scarse risorse imprenditoriali e umane, alla ricerca di una rendita del tutto improduttiva. Di conseguenza, l’abbondanza di risorse naturali si rivela, per un paese, una maledizione o una benedizione a seconda della qualità delle sue istituzioni. Tuttavia, in questo modello emerge un problema di endogenità, e anche la causalità inversa deve essere presa in considerazione: l’abbondanza di risorse può condurre governi e produttori a implementare la ricerca di rendita, portando, così, alla corruzione e a “istituzioni che arraffano amichevolmente”. In casi estremi, per evitare la redistribuzione della ricchezza prodotta, la ricerca di rendita può assumere la forma di governi autoritari.
M. Ross (2001) si chiede se il petrolio ostacoli la democrazia. Dal momento che Ross è uno scienziato politico e non un economista, egli non guarda all’interazione tra risorse e istituzioni nel determinare la prestazione economica di un paese, ma concentra la propria attenzione sul rapporto tra risorse naturali (prima di tutto energetiche) e democrazia. Inoltre, egli cerca di individuare delle prove da confrontare con le diverse teorie articolate per dare ragione di quel rapporto. Secondo Ross, queste teorie possono essere divise in due categorie: quelle che suggeriscono che la ricchezza prodotta dal petrolio porti i governi a ridimensionare il loro intervento di promozione dello sviluppo economico (attraverso politiche educative inefficaci, corruzione, ecc.) e quelle che suggeriscono che la ricchezza generata dal petrolio renda i paesi meno democratici. In secondo luogo, la sua analisi si sviluppa a ridosso di due dimensioni distinte: da una parte, quella geografica, rispetto alla quale cerca di verificare se non vi sia un nesso causale tra la prestazione (non) democratica di particolari gruppi di paesi e le loro specifiche caratteristiche culturali e storiche (come, ad esempio, il Medio Oriente e la sua cultura islamica); dall’altra, la dimensione settoriale, con la stima degli effetti generati dai diversi tipi di risorse primarie. Ross individua tre meccanismi causali fondamentali che possono spiegare il legame tra ricchezza di risorse energetiche e governo autoritario:
a) L’effetto rendita - I paesi ricchi di gas, petrolio o altre risorse naturali traggono molte delle proprie entrate da tasse sui bolli, sui diritti o sulle esportazioni. Queste attività orientate alla ricerca di rendita possono essere destinate a un alleggerimento della pressione fiscale, che, altrimenti, potrebbe determinare una richiesta di maggiore responsabilità. Questo può verificarsi in tre modi. In primo luogo, attraverso un effetto tassazione. Dal momento che i governi traggono sufficienti entrate dal petrolio o da altre risorse, non hanno bisogno di imporre budget rigidi e/o tasse pesanti sui cittadini e, in questo modo, ridimensionano il controllo sull’attività di governo e rendono la pacificazione fiscale più efficace. In secondo luogo, attraverso un effetto spesa, per cui le entrate derivate dal petrolio possono essere (almeno parzialmente) usate per spese generali e per il patronato, in modo da attenuare le latenti pressioni per la democratizzazione. In terzo luogo, attraverso un effetto di formazione di gruppo: i governi possono usare il loro denaro per corrompere o prevenire la formazione di gruppi sociali indipendenti, che potrebbero tendere alla rivendicazione di diritti politici.
b) L’effetto di repressione - Questa storia (dal carattere marcatamente politico) si sviluppa come segue: la ricchezza generata dal petrolio può indurre i governi a spendere di più per la sicurezza interna, bloccando, così, le aspirazioni democratiche della popolazione. A un governo che abbia più denaro a disposizione costa meno essere autoritario, per evitare di condividere la propria rendita con la popolazione. Questa tesi trova corrispondenza nei risultati raggiunti da Collier e Hoeffler (1998), secondo i quali l’abbondanza di risorse naturali aumenta la probabilità di guerre civili, dal momento che il beneficio atteso dalla vittoria è più alto per i diversi azionisti (governi, opposizioni, partiti politici, gruppi etnici, oligarchie).
c) L’effetto di modernizzazione - La democrazia deriva da un insieme di cambiamenti politici ed economici che includono la specializzazione occupazionale, l’urbanizzazione e alti livelli di istruzione. Nessuno di questi cambiamenti si verifica facilmente in un paese caratterizzato dall’abbondanza di risorse: la forza lavoro è intrappolata nel settore energetico e non si sposta verso quello manifatturiero e dei servizi, i cittadini non sono costretti a muoversi verso le città e il fatto che non vi siano necessità economiche riduce lo sforzo di investire in capitale umano. Come effetto collaterale, è noto che la pressione democratica è inferiore quando ci sono cittadini meno istruiti e l’effetto, dunque, si rafforza. I risultati dell’analisi empirica di Ross sono coerenti con la teoria e possono essere sintetizzati come segue: in primo luogo, il petrolio e gli altri combustibili fossili (gas, carbone) danneggiano la democrazia. In secondo luogo, le risorse energetiche la inibiscono nei paesi poveri, mentre nei paesi ricchi questo legame non è statisticamente rilevante. In terzo luogo, questo legame non è una caratteristica esclusiva dell’Estremo Oriente, ma risulta valido a livello globale. In quarto luogo, tutte le risorse, comprese le ricchezze che non derivano dai combustibili fossili, ostacolano la democrazia. In quinto luogo, i canali presentati sopra, ovvero l’effetto rendita, l’effetto di repressione e quello di modernizzazione, sono supportati solo da una debole dimostrazione.
Alla fine di questa lunga analisi le mie conclusioni sono le seguenti:
1) I Governi mondiali non stanno investendo a sufficienza nelle energie rinnovabili ma sono ancora legati a filo doppio alle energie fossili e al nucleare;
2) I Governi non vogliono rendere DEMOCRATICO l’uso dell’energia; vogliono invece mantenere il controllo su noi cittadini trasferendo il potere dagli oligarchi delle energie fossili a quelli del nucleare;
3) Non basta lottare per le energie rinnovabili come sole e vento, occorre anche battersi per il decentramento energetico, perchè ogni cittadino possa produrre “con le proprie mani” l’energia che vuole, creando un nuovo modello di produzione energetico (generazione distribuita di energia) che soppianti quello attuale che è di tipo accentrato, non flessibile e costoso;
4) La rete elettrica deve trasformarsi gradualmente da rete "passiva", in cui l'elettricità semplicemente scorre dal luogo di produzione a quello di consumo, a rete "attiva" e "intelligente" (smart grid) che gestisce e regola più flussi elettrici che viaggiano in maniera bidirezionale;
5) I paesi con abbondanza di risorse hanno goduto di un tasso di crescita minore rispetto ai paesi poveri di risorse; quindi le risorse naturali non sono una benedizione per lo sviluppo economico di un paese ma una maledizione che limita la crescita e il progresso socio-economico (maledizione delle risorse naturali);
6) La qualità delle istituzioni (e il suo livello di corruzione) è un fattore decisivo nel determinare se le risorse naturali siano una benedizione o una maledizione. I risultati empirici suggeriscono anche una causalità inversa: le risorse naturali hanno proprietà antidemocratiche: la ricchezza di petrolio e minerali tende a rendere i paesi meno democratici e molte rivoluzioni sono legate alle rendite derivate dalle risorse naturali;
7) Per tutte le ragioni esposte le risorse naturali non devono essere considerate un bene di proprietà del paese in cui si trovano ma un bene dell’umanità esente da possibilità di profitto o speculazione.

giovedì 17 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Le conseguenze economiche e finanziarie della tragedia giapponese

Con questo post voglio anch’io dare la mia opinione sull’impatto economico e finanziario che Il terremoto e lo tsunami giapponese potranno avere; ovviamente quello che dirò si riferisce ad una situazione che è ancora in divenire e, pertanto, diversi numeri o stime potranno già essere superati anche solo tra qualche settimana; in ogni caso i dati di cui parlerò sono importanti perché ci danno un ordine di grandezza della portata economica degli eventi giapponesi. Per cominciare, voglio ribadire la mia solidarietà ed il mio cordoglio a tutti i giapponesi che sono stati colpiti da questa tragedia.
Fatta questa doverosa premessa, proviamo ad addentrarci nei freddi numeri, calcoli e questioni economico-finanziarie di questo cataclisma, vista anche la pessima reazione che i mercati finanziari stanno avendo negli ultimi giorni. Cercherò di procedere per punti, con la finalità di rendervi più chiare le questioni che affronterò.
1) Per cominciare, il disastro provocato dal terremoto, si inserisce in una fase delicata per l’economia giapponese perché era prevista una nuova accelerazione della crescita economica nipponica, grazie al recupero delle attività globali nel corso di quest'anno. A questo punto, credo che, anche se la congiuntura esterna si manterrà favorevole, il dissesto interno non potrà fare altro che rallentare la crescita del Giappone. Sembra che l’area interessata dal terremoto sia piuttosto ampia perchè include 6 prefetture e ha una forte presenza di industrie, pari a circa il 6% del totale del paese. L’effetto globale in termini di calo della produzione, rallentamento dei traffici commerciali, dei flussi turistici e calo dei consumi, potrebbe essere davvero significativo. L’impatto sul PIL, che è stimato da diverse case di investimento tra lo 0,3% - 1,3% (un range molto ampio che evidenzia ancora la fase di incertezza) si potrebbe trasferire anche in attese di minore crescita globale (stando ad esempio alle ultime stime di JPMorgan Chase pre-terremoto, il Giappone aveva una crescita stimata dell’1,7%, mentre quella globale si attesta nell’ordine del 3,4%). A livello di numeri, Goldman Sachs, ad esempio, ha stimato il costo complessivo dei danni agli edifici e alle strutture produttive in circa 198 miliardi di dollari.
2) Nel primo giorno di negoziazioni dopo i tragici eventi dello scorso venerdì, il listino azionario giapponese (in base all’indice Topix) ha ceduto lunedì il 7,5%, seguito il giorno successivo da un’ulteriore perdita del 10% a causa delle preoccupazioni concernenti gli impianti nucleari danneggiati dallo tsunami. Il settore finanziario, quello del petrolio e del carbone e i servizi di pubblica utilità in ambito elettrico hanno subito le flessioni maggiori. Anche i principali settori all’esportazione hanno subito gravi perdite. Ovviamente, le maggiori preoccupazioni sono legate al nucleare. Tokyo Electric Power, la società che controlla la centrale nucleare di Fukushima ha ceduto qualcosa come il 40% a causa di timori di forti ripercussioni sugli impianti. Si sono verificate diverse esplosioni negli ultimi giorni e la situazione è poco chiara in termini di danni ed effetti radioattivi. Altri impianti hanno ridotto precauzionalmente l’operatività. La situazione di incertezza sta penalizzando tutti i produttori di energia del paese, direttamente o meno coinvolti nel nucleare, ma anche del mondo. Il terremoto dell’11 marzo 2011 è stato uno dei più forti con una magnitudo di 8,9, una delle più elevate dal 1990. Al momento, non ci sono sufficienti elementi per capire i danni all’impianto nucleare di Fukushima, tuttavia le notizie stanno via via peggiorando. Questo episodio potrebbe indurre un ripensamento globale sul tema del nucleare, mentre sembrano favoriti i produttori di energie rinnovabili. La cessata o minore produzione di componenti molto specialistici del settore tecnologico potrà rallentare la produzione di altri player globali (Dell, HP, Apple, etc.). Per contro, ciò potrebbe determinare un effetto di trasferimento di produzione in altri paesi come Taiwan e Corea. Alcune aziende coreane hanno già detto di avere scorte per far fronte ad eventuali effetti di scarsità. Taiwan potrebbe intervenire per fornire tecnologia e componenti ai produttori di tablet/smartphone. Anche in questo caso gli effetti positivi non sono immediati ma potranno comportare qualche tempo per la messa a punto di nuove linee di produzione e per l’approvazione dei nuovi componenti. Non bisogna poi dimenticare che Giappone, Taiwan e Corea sono diretti concorrenti in molti settori come raffinazione, chimica, auto e acciaio. Il calo della produzione di questi settori in Giappone potrà favorire proprio i paesi asiatici concorrenti. Anche il settore finanziario potrebbe soffrire: a) le banche giapponesi potranno risentire del calo dell’attività economica, del credito e per le perdite su crediti; b) le assicurazioni per l’aumento delle richieste di rimborso. Le assicurazioni di paesi come Germania e Regno Unito potranno anche subire forti ripercussioni. Per contro sono viste positivamente le banche cinesi che sono poco aperte al contesto internazionale e i cui EPS dipendono fortemente dall’economia domestica. Anche l’India è relativamente poco esposta al Giappone e potrebbe beneficiare delle difficoltà del paese asiatico.
3) Nonostante tutto, la storia ci insegna che il tempo cura le ferite generate dagli eventi più drammatici; devo riconoscere che, rispetto a situazioni precedenti di disastro, le autorità giapponesi hanno reagito rapidamente per alleviare gli effetti avversi prodotti dal terremoto sul fronte economico e finanziario. Lunedi la Banca del Giappone ha immesso la cifra record di 15.000 miliardi di yen nei mercati monetari e ha raddoppiato le dimensioni del suo programma di acquisto di asset portando la cifra a 10.000 miliardi di yen, per un totale di 40.000 miliardi di yen, nel tentativo di stabilizzare il sistema finanziario.
4) Per fare qualche considerazione in più sugli effetti attesi possiamo analizzare cosa è accaduto all’economia e ai mercati in occasione del terremoto del gennaio 1995 che interessò le aree di Osaka e Kobe. La rilevanza economica di Osaka e Kobe fu superiore, con un impatto sul PIL di circa il 6% e una popolazione di circa 14,5 milioni di persone. L’attuale episodio interessa, tra gli altri, i distretti di Miyagi, Fukushima e Sendai, meno rilevanti dal punto di vista del contributo al PIL (3,5%) e della popolazione (circa 4,5 milioni), tuttavia l’area è molto vasta ed è importante in termini di presenza produttiva energetica e non. Anche se i due episodi non sono del tutto paragonabili e le fasi del ciclo economico differiscono, vale la pena ricordare cosa accadde nel
1995. I principali effetti furono: forte calo dell’indice mensile e della produzione, calo di Export/Import e forte apprezzamento dello yen, deterioramento della propensione al consumo, con calo dei consumi soprattutto discrezionali, e forte recupero di consumi di beni durevoli nei mesi successivi. Nel 1995 l’indice Topix è sceso per tutto il primo semestre (- 26%), ma poi è rimbalzato fortemente nell’anno successivo raggiungendo il massimo a fine giugno 1996 (+55% dai minimi di un anno prima). Le forti interrelazioni dell’economia di oggi rispetto al 1995, rendono l’effetto contagio globale dell’episodio attuale più preoccupante. Si teme che questo evento, unito ad altre situazioni che stanno condizionando il contesto, come la crisi del Medio Oriente e il rialzo del prezzo del petrolio, e la perdurante debolezza dell’area Euro, siano una miscela di eventi sfavorevoli tale da frenare la fase positiva del ciclo economico in corso. In confronto al passato recente, le valutazioni di mercato sono decisamente più favorevoli. Attualmente, le negoziazioni sul TOPIX avvengono con un rapporto prezzo/valore di libro pari a 1,0x con molte società di fatto inferiori al valore di libro. Inoltre, il rapporto prezzo/utili stimato per l’indice TOPIX si attesta sul 13-14x circa, rispetto ad una media a 20 anni di oltre 30x.
5) Come è avvenuto nel caso precedente del terremoto del 1995, l’effetto sul ciclo economico giapponese di medio-lungo termine potrebbe essere favorevole grazie ai piani di ricostruzione e alla ripresa di investimenti pubblici e privati. Analogamente a quanto si è verificato nel 1996, nel 2012 ci si attende una ripresa della propensione ai consumi, della produzione industriale e degli investimenti. Ma in base a quanto sta emergendo, l’orizzonte della ripresa potrebbe essere anche più lontano.
6) La sfavorevole posizione fiscale del Giappone, in termini di elevato livello di debito costituisce un limite all’espansione della spesa pubblica e degli investimenti infrastrutturali che saranno necessari per la ricostruzione. Il Giappone ha un debito/PIL superiore al 230% e un deficit/PIL di circa il 10%. Per contro si rileva una forte propensione al risparmio delle famiglie, che è una delle più alte al mondo, anche se in calo negli ultimi anni.
7) In area Euro gli eventi nipponici potrebbero rappresentare un deciso freno alle intenzioni della BCE di voler rialzare i tassi fin dal prossimo aprile, a meno che Trichet oltre che di erostratismo non soffra anche di masochismo.
Chiudo ringraziando il blog FINANZA MONITOR (www.finanzamonitor.blogspot.com) che ha pubblicato questo post.

domenica 13 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Condoglianze Giappone

Come tutti Voi sono rimasto profondamente scosso nel vedere le tragiche immagini provenienti dal Giappone. Di solito, quando mi occupo del Sol Levante lo faccio relativamente alla sua economia e ai suoi mercato finanziari. Stavolta invece, mi unisco silenziosamente al dolore del popolo giapponese convinto che questo fiero popolo, riuscirà a superare anche questo triste momento della sua storia.
Condoglianze Giappone...

giovedì 10 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - L'inconsistenza della politica monetaria della BCE

L'ultimo numero della mia Newsletter ha scatenato il Vostro interesse e, come spesso accade negli ultimi tempi, avete riempito di mail la mia casella di posta elettronica con domande, richieste di supporto e spiegazioni che difficilmente riuscirò ad esaudire. Voglio però tornare sull'argomento e approfittare per fornirvi qualche ulteriore dettaglio che spiega la mia attuale posizione molto critica nei confronti dell'operato di Trichet & CO.
Come sapete, la notizia degli ultimi giorni è che la BCE ha, di fatto, preannunciato un rialzo dei tassi di interesse, lasciando la stragrande maggioranza degli investitori (compreso il sottoscritto) senza parole. Nella Newsletter ho fatto un parallelo con il 2008 quando nel mese di luglio la BCE mosse al rialzo i tassi, per poi rendersi conto dell'enorme errore compiuto solo poco tempo dopo. Vi ho evidenziato che, rispetto ad allora, ci sono alcune differenze dovute ad un diverso contesto di crescita economica in cui ci troviamo oggi. In questo post voglio portarvi altri spunti di riflessione e commentare insieme a voi qualche numero.
Partiamo dal leverage: i miei lettori storici sanno quello che vado sostenendo da quando il blog è nato e cioè che gli anni che stiamo vivendo attualmente sono di "digestione" degli eccessi che il mondo sviluppato aveva ingurgitato sino al 2000 (scoppio della bolla tecnologica). In questo sboom il motore principale è deflazionistico e non inflazionistico come vuole farci credere la BCE nella sua battaglia sconclusionata contro fantomatici mulini a vento. Nel contesto di crisi economica e finanziaria che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni i prezzi dei beni e dei servizi sono stati mantenuti schiacciati verso il basso. A questo proposito ha contribuito anche il fenomeno di delocalizzazione della produzione attuato dai Paesi occidentali verso le economie emergenti.
In secondo luogo, in un contesto di sboom le aziende e le famiglie devono smaltire la "sbornia" da eccesso di debito e, effettivamente, questo processo è in corso. Il problema però è che in area Euro l'eccesso di leverage si annida proprio nei Paesi periferici (Irlanda, Portogallo e Spagna) come si vede dal primo grafico che Vi allego.



Allora, i Paesi più vulnerabili sono quelli che hanno usato di più l'effetto leva per indebitarsi; cosa provocherebbe a questi Paesi un rialzo dei tassi? La risposta è scontata; proprio recentemente, tra l'altro, il ministro del Tesoro portoghese ha sollecitato le Autorità europee ad intervenire al più presto per rafforzare i meccanismi di salvataggio poichè i tassi di interesse che il Portogallo sta pagando ai creditori che detengono il suo debito non potranno essere pagati per un periodo di tempo prolungato. Ovviamente l'orientamento espresso da Trichet riguardo un possibile rialzo dei tassi in aprile sta continuando a muovere al rialzo i tassi di mercato. Quindi tutti coloro i quali dicono che la mossa era già scontata dal mercato dicono una sciocchezza. Trichet ha dato benzina al motore, del rialzo dei tassi sui mercati obbligazionari, già acceso da alcuni mesi, grazie ai segnali di ripresa dell'economia.
E veniamo ad un secondo punto: qual'è il giusto tasso di riferimento in area Euro? Nella mia Newsletter ho segnalato come, considerando l'area Euro nel suo complesso, il tasso di riferimento dovrebbe essere più basso (allo 0.20%-0.25%) secondo quanto suggerisce un'importante teoria, cioè la Taylor Rule. Se poi consideriamo i Paesi evidenziando i periferici (Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo) rispetto alla Germania, dal grafico in basso si vede come nei primi il tasso di riferimento dovrebbe essere a
-4.6% (cioè addirittura negativo!), mentre in Germania dovrebbe essere al 4.5%! Pazzesco no?!



Com'è possibile in una situazione di estrema eterogeneità, come quella attuale, pretendere di condurre una politica monetaria comune?! E poi con la prosopopea di "Erostrato Trichet" che vede solo la Core inflation come l'unico dei mali del Vecchio Continente. Ragazzi questa è roba vecchia, vetusta come il 99% dei politici che ci ritroviamo in Italia! Ma dalla BCE si "tuona" che "le banche centrali in giro per il mondo si muoveranno in modo coordinato per sconfiggere il serpente, il male dell'inflazione". Sicuro! Infatti la Bank of England ha appena deciso di non toccare i tassi di interesse nonostante la break-even inflation sia intorno al 4%, così come aveva fatto a giugno del 2009 quando c'era stato un altro allungo della break-even inflation al 4.5% ma, in modo lungimirante, non si è fatta prendere la mano come sta facendo la BCE (per il momento solo con dichiarazioni hawkish).



Cosa dire infine dell'ultimo grafico che vi propongo?



Proprio nei Paesi più vulnerabili la maggior parte delle persone (settore privato) ha aperto mutui a tasso variabile e un rialzo dei tassi provocherebbe un aumento della rata da pagare; di fatto l'effetto già lo si vede perchè i tassi di mercato stanno già salendo ma, gli annunci della BCE non fanno che peggiorare ulteriormente la situazione.
Concludendo, la politica monetaria della BCE così come viene condotta serve a poco e gli annunci dei suoi esponenti sono quanto di più deleterio ci si possa augurare per il delicato scenario congiunturale che stiamo vivendo.

domenica 6 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Financial Markets LAB Newsletter

E' in uscita la Financial Markets LAB Newsletter; ho intitolato questo numero Erostrato. Scoprite perchè...

mercoledì 2 marzo 2011

DAL LABORATORIO DEI MERCATI FINANZIARI - Analisi tecnica dell'indice HUI

In questo breve post voglio analizzare l'indice HUI che sintetizza, da un lato, l'andamento delle principali azioni aurifere e, dall'altro, rappresenta anche un importante indicatore a livello di analisi intermarket perchè permette di capire i legami tra gli andamenti delle diverse classi di attivo (azioni, obbligazioni, materie prime). Questo indice azionario ha egregiamente anticipato, ad esempio, la ripartenza del bull market nel mondo azionario visto che ha fatto un importantissimo minimo alcuni mesi prima di quello fatto segnare dalle borse mondiali nel marzo del 2009 prima di inanellare una poderosa salita tutt'ora in corso.
All'inizio del 2011 abbiamo assistito ad una forte rotazione settoriale, di stili e di capitalizzazioni e anche l'indice Hui aveva fornito segnali di debolezza che stavano mettendo in discussione il trend di medio-lungo periodo.
Queste indicazioni, al momento, paiono del tutto rientrate e, come si vede dal grafico che vi allego, sembra che la tendenza primaria al rialzo sia stata pienamente ristabilita, tranquillizzandoci anche sul versante azionario nel complesso. In altre parole, se l'indice Hui non ha ancora invertito la tendenza, non ci ha ancora evidenziato la possibilità che l'azionario globale possa aver concluso al rialzo il bull market ciclico. Voglio tuttavia accendere nella mente degli amici lettori una lampadina rossa di allerta proprio proponendovi la visione del grafico in questione ed evidenziando come i corsi, nel momento in cui scrivo, sembrano davvero tirati al rialzo. Per quanto tempo ancora potrà durare la salita e la tenuta della tendenza di lungo termine? Un mese, tre mesi o quanto ancora?! Io credo proprio che si tratti di una questione di qualche mese, ipotizzando che, molto probabilmente, avremo una seconda parte dell'anno da vivere in difesa per quanto riguarda i mercati azionari; la correzione attuale invece, causata dalla crisi libica, mi sembra rappresenti ancora una occasione di acquisto di rischio azionario.